«OPEN» DI NOME MA NON DI FATTO
L’Anticorruzione chiede trasparenza sulle fondazioni politiche. E Renzi fa finta di niente.
sulla bontà della Carta originaria (un punto su cui gli osservatori sono divisi), è difficile occultare che almeno una decina dei 54 articoli iniziali (Princìpi fondamentali e Diritti e doveri dei cittadini) sono stati largamente ignorati e talvolta sostanzialmente traditi. Fra di essi, i più calpestati sono probabilmente quelli concernenti il lavoro (1, 4, 36) e lo studio (34).
I primi stabiliscono il diritto ad avere un lavoro (1, 4) e una retribuzione adeguata (36), nonché l’impegno della Repubblica a rendere effettivo tale diritto. Basta una breve occhiata alla traiettoria storica dei tassi di occupazione e di disoccupazione per rendersi conto che questo diritto, solennemente enunciato all’articolo 1 («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»), non è mai stato garantito, e negli ultimi due decenni è stato addirittura umiliato: oggi l’Italia non solo non è in un regime di piena occupazione (come la Germania e alcuni Paesi del Nord) ma ha il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa. Le cose vanno ancora peggio per quanto riguarda l’articolo 34, che nel secondo e terzo comma recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Anche questo diritto è negato e calpestato, come sa chiunque sia semplicemente «capace e meritevole», senza essere anche povero. Oggi le pochissime borse di studio sopravvissute sono assegnate esclusivamente a coloro le cui famiglie, almeno sulla carta (attestazione Isee) ver- sano in condizioni di disagio estremo. E uno dei drammi cui assisto all’università è che i pochi studenti davvero «capaci e meritevoli» sono spesso costretti a lavorare per mantenersi agli studi, perché le loro famiglie sono modeste, ma non abbastanza povere da avere diritto alle limitatissime risorse disponibili. Così la concorrenza con i figli di papà diventa sleale, alla faccia dei principi egualitari e meritocratici proclamati in tanti articolo della Carta fondamentale.
Resterebbe la questione dell’attualità della Costituzione. Su questo, lo confesso, le mie sensazioni sono contrastanti. Da un lato ho molti dubbi sul fatto che il federalismo introdotto nel 2001, ma anche il regionalismo introdotto nel 1970, siano stati un progresso: il loro effetto è stato soprattutto di rendere più facile ad amministratori e politici dilapidare denaro pubblico. E ancora più dubbi ho sulla funzionalità del bicameralismo, che il referendum renziano del 2016 sciaguratamente non intendeva affatto eliminare, ma solo annacquare e imbastardire (con i senatori eletti dai Consigli regionali).
Dall’altro lato, però, mi assale anche un dubbio di segno opposto, e cioè che la maggior parte delle cose che non vanno, in Italia, non dipendano affatto dalla Costituzione, bensì dalla scarsa qualità degli uomini che dovrebbero rispettarla, attuarla, tradurla in norme e regolamenti: la lentezza del processo legislativo, ad esempio, dipende tantissimo dai regolamenti parlamentari e dalla irresponsabilità dei partiti, più che dal bicameralismo.
Sicché, alla fine, più che chiedermi se la Costituzione sia attuale oppure no, mi viene da farmi un’altra e più radicale domanda: e se il vero problema non fosse la Costituzione, ma fossimo noi stessi, cittadini italiani, con le nostre cattive abitudini, la nostra indifferenza, e in definitiva la nostra incapacità di sceglierci una classe politica decente? L’8 dicembre 2017, giorno della Immacolata concezione, il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone ha spiegato su Repubblica come tentare di rendere immacolati pure i finanziamenti alla politica. Lo ha fatto insieme al direttore per gli affari legali dell’Ocse Nicola Bonucci, un altro che di corruzione se ne intende. I due sostengono che bisognerebbe rendere completamente trasparenti i finanziamenti alle fondazioni politiche per evitare che esse consistano, nei fatti, in uno strumento di finanziamento occulto o illecito ai partiti. Al momento, infatti, le fondazioni non hanno l’obbligo di rendere noti i nomi di chi le sovvenziona. In attesa di una legge che regoli la materia in maniera organica, Cantone e Bonucci invitano le fondazioni a rendere pubblici i loro bilanci già a partire dalla campagna elettorale in corso. Ora: siccome anche Matteo Renzi considera Cantone la massima autorità anticorruzione, e poiché il renzismo è incarnato nella Fondazione Open - fondata da Matteo insieme ad Alberto Bianchi (presidente), Maria Elena Boschi (segretario generale), Marco Carrai e Luca Lotti - la domanda nasce spontanea: perché Renzi e i renziani non agiscono di conseguenza, diffondendo il bilancio di Open? In un tempo di polemiche sulle banche, tale scelta porterebbe loro molti vantaggi politicoelettorali. A meno che, ovviamente, non abbiano qualcosa da nascondere.