De Benedetti e il vizietto di speculare
La «dritta» per la scorribanda borsistica stavolta gli è arrivata da Matteo Renzi. Ma nella sua attività di «raider» finanziario - e nelle molte inchieste e condanne che ne sono derivate - l’Ingegnere dimostra da sempre tempismo.
L’incedere del tempo non ha svilito l’attitudine di Carlo De Benedetti alle furberie. La scorribanda è ormai la sua indelebile firma sul capitalismo italiano. È il vizietto. A 83 anni la tessera numero uno del Partito democratico non ha perso smalto. Il suo privilegiatissimo rapporto con Matteo Renzi gli avrebbe permesso l’ultima mandrakata. Il 16 gennaio del 2015 l’Ingegnere telefona al broker di fiducia, Gianluca Bolengo. Vuole speculare sulle banche popolari. Il governo sta studiando un decreto sul settore: «Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa» informa. È l’attesa stura. La Romed di De Benedetti investe 5 milioni sugli istituti interessati. Quattro giorni più tardi, come anticipato, il provvedimento è approvato. E l’Ingegnere incassa una plusvalenza di 600 mila euro. Su segnalazione della Consob, la Procura di Roma apre un’indagine per insider trading. A giugno del 2016 viene chiesta l’archiviazione, ma gli atti dell’inchiesta finiscono alla Commissione parlamentare sul dissesto delle popolari. Tra le carte, c’è quella telefonata. E un interrogatorio, davanti ai funzionari Consob, in cui l’ex editore di Repubblica si professa come una sorta di advisor occulto del governo Renzi.
Un intreccio che, svelato il raid borsistico, diventa il detonatore per inevitabili accuse di conflitto d’interesse. L’impareggiabile scaltrezza del resto
è l’asset fondamentale delle fortune di De Benedetti. Percorrendo a ritroso gli ultimi decenni, ha sempre dimostrato fiuto e tempismo sensazionali. Come accade nell’estate del 2005. Il 28 luglio di quell’anno annuncia una sorprendente alleanza. La sua Cdb Web Tech costituirà un fondo salva-imprese: Management & Capitali. E tra gli illustri soci ci sarebbe nientemeno che l’arcinemico: Silvio Berlusconi. Dopo la notizia, il titolo della società vola in borsa. L’1 agosto 2005 De Benedetti mette a segno il colpaccio. Vende 1 milione di azioni. E incassa una plusvalenza di quasi 4 milioni di euro.
Nelle settimane precedenti si erano mossi sul mercato anche alcuni familiari dell’Ingegnere. Tra cui i cognati: Renata Cornacchia e Augusto Girardini. E la figlia di primo letto della moglie, Una Donà dalle Rose, con il marito, Alessio Nati. Assieme ad altre tre persone legate a Nati, tra il 13 il 28 luglio del 2005, acquistano titoli Cdb. Per rivenderli quando le quotazioni, alla notizia della creazione del fondo, schizzano verso l’alto. La Consob comincia a indagare per insider trading. E ad agosto 2010 multa i sette per 3,5 milioni di euro.
Alcuni ricorsi sono ancora pendenti. Ma l’11 luglio 2013 la Corte d’Appello di Venezia ha intanto confermato la condanna a Cornacchia e Girardini: «Prima della diffusione al pubblico della notizia, persone legate da rapporti di familiarità con Carlo De Benedetti e tre clienti, che avevano tutti lo stesso consulente finanziario, risultavano aver acquistato ingenti tentativi di azioni Cdb, per poi rivenderli poco dopo la diramazione del comunicato». In quell’estate di incursioni borsistiche, l’Ingegnere viene indagato per evasione dell’Iva. L’inchiesta riguarda l’acquisto di gioielli comprati a Sankt Moritz per la moglie, Silvia Monti. Il valore è ingente: 600 mila euro. I monili sono importati in Italia il 16 agosto 2015 sull’aereo privato dell’imprenditore. Quattro anni più tardi, il 22 gennaio 2009, De Benedetti viene assolto dall’accusa di contrabbando. Ma patteggia una pena di 130 mila euro per l’evasione fiscale.
Un altro patteggiamento lo aveva salvato anni prima dal solito vizietto da raider. Nell’autunno del 1996, la Procura di Torino indaga l’Ingegnere per insider trading sull’Olivetti, di cui è presidente onorario. L’inchiesta viene avviata dopo una segnalazione dalla Consob. De Benedetti avrebbe venduto azioni a mille lire, tra agosto e settembre 1996. Ancora una
volta, con eccellente prontezza: poco più tardi, l’Olivetti presenta una semestrale disastrosa. E il valore dei titoli si dimezza a 500 lire. «Normali operazioni che si fanno per stabilizzare il mercato» chiarisce l’Ingegnere. Che però, a settembre 1997, patteggia una multa, «per evitare danni d’immagine». Speculazioni, vendite repentine, in
formazioni privilegiate: un copione che si ripete pure con il Banco Ambrosiano, guidato dall’enigmatico Roberto Calvi. A novembre 1981 De Benedetti acquista il 2 per cento del capitale e diventa vicepresidente dell’istituto, già alle soglie del fallimento. Ma lascia dopo appena due mesi, incassando una plusvalenza di 40 miliardi di lire. Accusato di bancarotta fraudolenta, è condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi e in appello a 4 anni e sei mesi. Ma la Cassazione, ad aprile 1998, proscioglie l’imputato per motivi processuali e annulla le due sentenze. Intanto, dai fatti contestati sono passati quasi 17 anni.
Questa dilazione non deve però stupire. Il tempo ha sempre remato a favore dell’Ingegnere. Per ben 26 anni s’è trascinata l’accusa di elusione fiscale contro L’E
spresso, la sua passione editoriale. Correva il 1991: prima della quotazione in Borsa del gruppo, la fusione societaria tra Re
pubblica e la Cartiera di Ascoli permette le solite, strepitose, plusvalenze. Apparentemente non dichiarate. Una megaevasione da 225 milioni di euro, quantifica la Commissione tributaria regionale di Roma nel maggio 2012. Ma a settembre 2017 viene annunciato l’accordo: al Fisco saranno versati 175 milioni. Che però non scucirà
l’Espresso di De Benedetti, che due mesi prima ha lasciato la società. Ma il gruppo Gedi, nato dalla fusione con La Stampa e Il
Secolo XIX, che ha come munifico secondo azionista gli Agnelli. L’Ingegnere ha colpito ancora. Seguendo, come sempre, il motto di Gordon Gekko, l’eroe cinematografico di Wall Street: «È tutta una questione di soldi, il resto è conversazione».