Quei (giovani) cervelli in fuga
Sono sempre più numerosi gli italiani con una laurea in tasca che se ne vanno o che sono comunque pronti a partire. Perché nel nostro Paese ci sono poche possibilità, gli stipendi sono troppo bassi e le opportunità di carriera non riflettono il merito.
Una fuga che prosegue ininterrotta anche quest’anno. Stando ai dati dell’Aire (l’anagrafe dei residenti all’estero) comunicati a Panorama, infatti, gli italiani che hanno registrato la propria residenza all’estero da gennaio a dicembre 2017 sono ben 139.170. Il totale dei connazionali fuggiti oltreconfine è salito così a 5.114.469, più di 2 milioni dei quali partiti dal 2006 a oggi. Numeri peraltro sottostimati perché, come noto, molti non compiono subito il passaggio di «addio» anagrafico formale, pur lavorando o studiando all’estero da tempo.
Ma quale è l’identikit di chi parte oggi? I dati mostrano che se un tempo a fare la valigia erano quasi esclusivamente i
giovani «cervelli», ovvero i neolaureati e i ricercatori, la scelta di abbandonare il Paese si è estesa ora agli over 35, alle famiglie e anche ai lavoratori senza istruzione, come accadeva nelle grandi emigrazioni del passato. L’Istat certifica che ha una laurea nel curriculum solo un terzo degli emigrati nel 2016. La loro meta preferita è il Regno Unito che ha vissuto un boom nell’ultimo anno (da notare, però, che negli ultimi due anni c’è anche un «effetto Brexit» che spinge a regolarizzarsi prima di eventuali restrizioni decise da Londra), seguita da Germania, Svizzera, Francia, Spagna e, varcando le frontiere europee, Brasile e Stati Uniti.
A fare la differenza sono il livello retributivo e le prospettive di carriera.
I salari italiani restano fra i più bassi delle economie avanzate e soprattutto crescono troppo lentamente. Un po’ per il carico fiscale, molto per la bassa produttività. E, ciliegina sulla torta, restano legati più alla progressione dell’età che al merito. Sta di fatto che, secondo le rilevazioni di varie società di selezione del personale, la forbice fra Italia e altri Paesi Ue per un neolaureato al primo ingresso si aggira in medi afra i 6 e i 10 mila euro lordi in meno all’anno.
Così, complici i voli low-cost, l’euro in tasca e anche il programma Erasmus, che dal 1987 ha portato una prima volta all’estero almeno 400 mila universitari italiani (più di 40 mila solo nell’anno accademico in corso) si parte. Talvolta per accettare lavori non particolarmente qualificanti ma pagati meglio. Più spesso perché il talento è apprezzato. Secondo il profilo di AlmaLaurea, metà dei laureati italiani nel 2016 è disponibile a lavorare oltreconfine: solo dieci anni prima la percentuale era al 39 per cento. Insomma, non si tratta solo del posto di lavoro che non si trova o di sbarcare il lunario. Ma anche di garantirsi chance migliori.
Il nodo del mercato del lavoro italia-
no resta il cosiddetto mismatch, termine inglese che sta per squilibrio delle competenze. Detto in parole povere: si trova un posto di lavoro inadeguato alle conoscenze acquisite. L’Ocse ha fotografato tale situazione nella prima indagine «Piaac» (la seconda è programmata per il 2020). «Abbiamo valutato due diversi tipi di mi
smatch: uno per i titoli di studio, l’altro per le competenze» spiega a Panorama Simona Mineo, responsabile dell’indagine Piaac dell’Ocse per l’Italia. «Nel primo caso è stata misurata la distanza fra il titolo di studio posseduto e quello necessario per il posto di lavoro occupato, nel secondo quella della competenza a prescindere dal grado di istruzione».
Ebbene, il 22,4 per cento dei lavoratori italiani possiede
una qualifica inferiore a quanto richiesto dal suo impiego: in pratica, siede a una scrivania per la quale non ha i requisiti di studio richiesti dal mercato. Come è possibile? Le ragioni sono varie. Molti imprenditori assumono personale di livello più basso semplicemente per pagarlo meno o perché è nella propria rete di conoscenze dirette o, manco a dirlo, per la fatidica «raccomandazione».
Dall’altra parte, invece, c’è un 13,3 per cento di lavoratori che ha più titoli rispetto al posto occupato, cioè è inquadrato in un livello più basso del dovuto. Una condizione che accomuna tutte le fasce d’età ma con punte più alte fra i giovani perché molti accettano un’offerta pur di conquistare l’assunzione. Sommate le due facce, si arriva a quasi il 36 per cento di lavoratori che, molto banalmente, non stanno al posto giusto: tre volte la media Ocse (pari al 12,7 per cento). Un risultato che mette l’Italia in testa alla classifica dei 33 Paesi presi in esame dalla ricerca e ci incorona come i «peggiori».
Passando al secondo parametro, quello che ha misurato la distanza fra le abilità possedute e quelle richieste a prescindere
dal titolo di studio, il trend è analogo: l’11,7 per cento della forza lavoro ha più competenze rispetto alle mansioni svolte in azienda, mentre il 6 per cento le ha inferiori (la media Ocse è appena il 3,8). Questo si traduce in un 17,7 per cento di lavoratori la cui formazione non è in linea con l’impiego. Tutto questo pesa in termini di mancata produttività e la bassa spinta motivazionale dei lavoratori è un contributo pesante perché non stimola a sfruttare appieno il potenziale.
L’Ocse sottolinea che l’Italia è intrappolata in una sorta di circolo vizioso: a scarse competenze dei lavoratori si accompagna una scarsa richiesta di buone competenze dei datori di lavoro. In Italia, le imprese a gestione familiare rappresentano più dell’85 per cento del totale e circa il 70 per cento dell’occupazione. Chi ha il timone di queste imprese spesso non ha le competenze necessarie per puntare su nuove strade e sull’innovazione tecnologica (il numero degli imprenditori laureati italiani è più basso della media Ue).
Va detto, tuttavia, che molti giovani italiani continuano a scegliere indirizzi umanistici (meno richiesti dal mercato del lavoro) rispetto a discipline matematiche, scientifiche ed economiche. E anche l’università continua a essere a macchia di leopardo con pochi ottimi atenei che sfornano candidati appetibili (soprattutto al Nord) e troppe che invece non sono al passo, con programmi e metodi didattici inattuali o azzoppate dai tanti «baroni» che, come mostrano i casi di cronaca, occupano cattedre senza essere i migliori.
Eppure, sempre secondo l’Ocse, i migliori lavoratori italiani non solo sono pari ai più qualificati dei Paesi avanzati ma mostrano migliori performance per rapidità di apprendimento e soluzioni dei problemi. Come provano le migliaia di storie di eccellenza in tutto il mondo. Insomma, alle giuste condizioni, siamo bravi.