Perché è fallito il Jobs act
Dilagano i contratti «usa e getta» mentre è stato abolito il lavoro a progetto. Un passo indietro rispetto alla legge Biagi, che dimostra l’incapacità di affrontare la realtà 4.0. Che è molto diversa dallo storytelling renziano.
La contesa sul Jobs act e sui suoi effetti non si ferma oramai da quasi tre anni. È una arida guerra di numeri. A cui si cerca di far dire tutto e il contrario di tutto. Una guerra che non tiene conto della situazione reale di un mercato del lavoro sempre più povero dove non cresce la produttività del lavoro e che ha registrato una costante riduzione dei salari e della quantità complessiva di ore lavorate. Largamente viziata da generosi bonus occupazionali, a carico dello Stato, che hanno drogato il mercato del lavoro e che, tuttavia, non hanno minimamente cambiato le scelte di operatori e imprese una volta terminati. Con la conseguenza di aver gettato al vento quasi 20 miliardi di euro che ben potevano essere utilizzati per avviare una riduzione strutturale del costo del lavoro.
Lo dimostra il fatto che oggi su 100 assunzioni ben 93 continuano a essere temporanee, quando la finalità della riforma era la stabilità del posto di lavoro. Una pretesa paradossale, da parte di chi ha avallato il superamento dell’art. 18, che si pone in aperta contraddizione con la più recente evoluzione della economia e del lavoro. Una pretesa irrealizzabile se, come poi avvenuto, la rottamazione delle vecchie tutele non si accompagna con l’effettiva messa a regime di un moderno sistema di politiche attive e di ricollocazione. Lo dimostra il nodo, ciclicamente ricorrente, delle pensioni, che ancora immaginano percorsi di carriera lineari e per una vita, con eventuali transizioni da posto a posto. Come se nei moderni mercati del lavoro si potesse ancora svolgere uno stesso mestiere per tutta la vita.
Il tutto con l’aggravante di aver contestualmente eliminato gran parte della legge Biagi che si era invece posta oltre la vecchia contrapposizione, propria del Novecento industriale, tra contratti stabili e contratti precari, per costruire un moderno sistema di welfare della persona, indipendente cioè dal contratto con cui di volta in volta si lavora e in grado di accompagnare occupati e inoccupati dentro mercati del lavoro caratterizzati da cicli brevi e dal susseguirsi di una pluralità di mestieri molti dei quali oggi non ancora esistenti. E così oggi, liberalizzati dalla fase I del Jobs act, dilagano i contratti a termine «usa e getta», mentre è stato abolito il lavoro a progetto che, per Marco Biagi, rappresentava l’idea del lavoro 4.0. Un lavoro intelligente dove i risultati e le competenze dei lavoratori superano tanto l’orario di lavoro quanto i rigidi mansionari che comprimono libertà e creatività delle persone che lavorano.
Può essere che l’idea di abolire il Jobs act sia solo poco più di una battuta utile a ricordare agli elettori il grande divario tra lo storytelling renziano e la difficile situazione del mercato del lavoro soprattutto per i nostri giovani e per i lavoratori con limitate competenze professionali che non trovano aiuto nei complessi processi di ricollocazione e riconversione professionale.
Non possiamo tuttavia che augurarci un ritorno allo spirito e al metodo della legge Biagi che per prima ha fatto uscire il tema delle riforme del lavoro dallo scontro sui cavilli normativi per affrontare le grandi sfide tecnologiche e demografiche che stanno rivoluzionando il mondo del lavoro e di cui il Jobs Act non si è curato avendo ancora cuore e testa nel Novecento industriale.
Gettati al vento quasi 20 miliardi di euro in interventi che hanno drogato il mercato.