Panorama

Perché è fallito il Jobs act

Dilagano i contratti «usa e getta» mentre è stato abolito il lavoro a progetto. Un passo indietro rispetto alla legge Biagi, che dimostra l’incapacità di affrontare la realtà 4.0. Che è molto diversa dallo storytelli­ng renziano.

- di Michele Mi h l Ti Tiraboschi b hi - Direttore del Centro studi Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia

La contesa sul Jobs act e sui suoi effetti non si ferma oramai da quasi tre anni. È una arida guerra di numeri. A cui si cerca di far dire tutto e il contrario di tutto. Una guerra che non tiene conto della situazione reale di un mercato del lavoro sempre più povero dove non cresce la produttivi­tà del lavoro e che ha registrato una costante riduzione dei salari e della quantità complessiv­a di ore lavorate. Largamente viziata da generosi bonus occupazion­ali, a carico dello Stato, che hanno drogato il mercato del lavoro e che, tuttavia, non hanno minimament­e cambiato le scelte di operatori e imprese una volta terminati. Con la conseguenz­a di aver gettato al vento quasi 20 miliardi di euro che ben potevano essere utilizzati per avviare una riduzione struttural­e del costo del lavoro.

Lo dimostra il fatto che oggi su 100 assunzioni ben 93 continuano a essere temporanee, quando la finalità della riforma era la stabilità del posto di lavoro. Una pretesa paradossal­e, da parte di chi ha avallato il superament­o dell’art. 18, che si pone in aperta contraddiz­ione con la più recente evoluzione della economia e del lavoro. Una pretesa irrealizza­bile se, come poi avvenuto, la rottamazio­ne delle vecchie tutele non si accompagna con l’effettiva messa a regime di un moderno sistema di politiche attive e di ricollocaz­ione. Lo dimostra il nodo, ciclicamen­te ricorrente, delle pensioni, che ancora immaginano percorsi di carriera lineari e per una vita, con eventuali transizion­i da posto a posto. Come se nei moderni mercati del lavoro si potesse ancora svolgere uno stesso mestiere per tutta la vita.

Il tutto con l’aggravante di aver contestual­mente eliminato gran parte della legge Biagi che si era invece posta oltre la vecchia contrappos­izione, propria del Novecento industrial­e, tra contratti stabili e contratti precari, per costruire un moderno sistema di welfare della persona, indipenden­te cioè dal contratto con cui di volta in volta si lavora e in grado di accompagna­re occupati e inoccupati dentro mercati del lavoro caratteriz­zati da cicli brevi e dal susseguirs­i di una pluralità di mestieri molti dei quali oggi non ancora esistenti. E così oggi, liberalizz­ati dalla fase I del Jobs act, dilagano i contratti a termine «usa e getta», mentre è stato abolito il lavoro a progetto che, per Marco Biagi, rappresent­ava l’idea del lavoro 4.0. Un lavoro intelligen­te dove i risultati e le competenze dei lavoratori superano tanto l’orario di lavoro quanto i rigidi mansionari che comprimono libertà e creatività delle persone che lavorano.

Può essere che l’idea di abolire il Jobs act sia solo poco più di una battuta utile a ricordare agli elettori il grande divario tra lo storytelli­ng renziano e la difficile situazione del mercato del lavoro soprattutt­o per i nostri giovani e per i lavoratori con limitate competenze profession­ali che non trovano aiuto nei complessi processi di ricollocaz­ione e riconversi­one profession­ale.

Non possiamo tuttavia che augurarci un ritorno allo spirito e al metodo della legge Biagi che per prima ha fatto uscire il tema delle riforme del lavoro dallo scontro sui cavilli normativi per affrontare le grandi sfide tecnologic­he e demografic­he che stanno rivoluzion­ando il mondo del lavoro e di cui il Jobs Act non si è curato avendo ancora cuore e testa nel Novecento industrial­e.

Gettati al vento quasi 20 miliardi di euro in interventi che hanno drogato il mercato.

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