In politica estera è riuscito a fare peggio di Obama
Èdifficile persino solo ipotizzarlo un successo di Donald Trump in politica estera. Il presidente americano non brilla certo per competenza, coerenza e stile nella conduzione con i leader e i Paesi stranieri. Nei giorni scorsi ha qualificato come «Paesi di m…» Haiti, e la gran parte dei Paesi dell’Africa subsahariana, attirandosi una richiesta ufficiale di scuse in ambito Nazioni Unite e le dimissioni dell’ambasciatore Usa a Panama che ha detto di «non poter più servire un simile presidente». In Consiglio di sicurezza era appena riuscito ad isolare gli Stati Uniti annunciando lo spostamento della legazione americana da Tel Aviv a Gerusalemme, condannata a grandissima maggioranza anche in Assemblea generale. Complessivamente il Medio Oriente è la regio
ne in cui, avendo senza dubbio ereditato una cattiva situazione frutto della gestione di Obama, è riuscito persino a peggiorare le cose. La centralità acquisita dalla Russia nella regione non è certo colpa sua (ma i rapporti con Mosca sono peggiorati anche a prescindere dal Russiagate), mentre lo è il sostegno incondizionato all’avventurismo del principe saudita Mohamed Bin Salman in Yemen, Libano e nei confronti del Qatar e a tutte le scelte più estremiste e pericolose di Benjamin Netanyahu, il pessimo premier israeliano.
Nel primo anno della sua amministrazione Trump può rivendicare lo sradicamento territoriale dello Stato islamico, e la lotta al terrorismo costituisce la lente privilegiata attraverso la quale Trump interpreta l’intera regione mediorientale, purtroppo spesso deformata dall’ossessione anti-iraniana. Nei confronti di Teheran la politica trumpiana è volta al cambiamento di regime, persino passando attraverso la denuncia dell’accordo sul nucleare. Qui la solitudine di Trump ha effetti che si ripercuotono anche sull’altra questione nucleare - molto più pericolosa - quella nordcoreana. Dopo aver indispettito russi e cinesi (al suo esordio Donald aveva anche affermato di voler abbandonare la «one China policy»), ha generato il risentimento dei sudcoreani preoccupati che la minaccia nucleare di Pyongyang finisca con l’essere assorbita in un contenzioso egotico e bilaterale tra le due personalità di Kim e Trump («il mio pulsante è più grosso del suo»).