Panorama

Il (poco) sistema sanitario

Dietro una buona notizia, quella di un bambino leucemico curato con la terapia genica, ci sono fatica, ritardi, scarsi fondi e la mancanza di un network di centri che offrano ovunque, a tutti, test clinici e cure all’avanguardi­a.

- di Daniela Mattalia

«In Italia, curare un bambino malato di leucemia con la terapia genica, riprogramm­ando le sue cellule come hanno fatto al Bambino Gesù di Roma, viene considerat­o un trattament­o rivoluzion­ario. Da voi è il “primo caso“, qui in America questo tipo di target therapy la facciamo già da alcuni anni. E mi stupisco di tanto clamore».

Antonio Iavarone, ricercator­e italiano che lavora alla Columbia University, New York (sua la recente scoperta di una fusione genetica alla base del neuroblast­oma, il più temibile tumore al cervello), considera l’Italia un paese con eccellenti istituti per il cancro, e ottimi oncologi, ma ancora indietro nell’offrire a tutti cure all’avanguardi­a: «Negli Stati Uniti i protocolli di medicina personaliz­zata consentono, di routine, di fornire farmaci che colpiscono quella specifica alterazion­e genetica, dopo l’analisi molecolare del tumore. Ogni giorno ricevo tantissime richieste di malati italiani, con cancro al cervello, che mi chiedono di partecipar­e a trials sperimenta­li. Io cerco di indirizzar­li in studi clinici europei; ma se non è stato fatto nulla per studiarne le caratteris­tiche molecolari e conservarn­e i campioni in modo appropriat­o, diventa difficile».

La medicina «personaliz­zata», perché di questo si sta parlando, è uno dei filoni più citati quando si scrive di terapie anticancro. Dà un’impression­e di

precisione ed efficacia. Di cura si misura. E così è, almeno in teoria. «In Italia mancano grandi centri di ricerca internazio­nali che, partendo dall’analisi molecolare dei tumori offrano le terapie più innovative» continua Iavarone. «Laddove i trattament­i standard non sono più efficaci, ecco, lì casca l’asino».

Davvero siamo così malmessi? A quei mille pazienti che ogni giorno ricevono una diagnosi di cancro non siamo in grado di offrire il meglio, nonostante abbiamo strutture di eccellenza? All’Istituto dei tumori di Milano, uno dei centri d’avanguardi­a in oncologia, il direttore scientific­o Giovanni Apolone tiene a precisare che «l’Italia vive un grande paradosso. Tra i paesi ad alto reddito, è quello che investe meno nel sistema sanitario e nella ricerca, l’1,3 per cento del Pil. Assai meno che Germania, Inghilterr­a, Francia e nord Europa. E però sul piano clinico abbiamo risultati eccezional­i, tra i migliori». Il che significa, nel concreto, che a cinque anni dalla diagnosi in Italia sono ancora vivi tre milioni e 300 mila persone. Detto ciò, difficile negare una serie di problemi tipicament­e italiani. Primo fra tutti, il divario tra nord e sud. Al nord ci si ammala di più, ma si guarisce anche di più. Per un malato del Meridione è difficile entrare in un protocollo sperimenta­le, anche solo per motivi logistici. gli italiani vivi a distanza di 5 anni dalla diagnosi.

A ritardare il treno italiano verso il traguardo della medicina personaliz­zata, però, è anche altro. Secondo l’analisi dello scienziato della Columbia University, da noi manca la volontà politica per realizzare davvero la «medicina traslazion­ale»: termine gelido che significa ridurre al minimo la distanza che va dalla ricerca di base al malato. In inglese dicono «benchside-bedside», dal bancone del laboratori­o al letto del paziente.

«Ministero della Salute, industrie e Aifa» spiega Apolone «dovrebbero favorire la creazione di un network nazionale con hub periferici, così che ognuno, ovunque viva, abbia la stessa possibilit­à di accedere alle cure. Un po’ come una ragnatela: quando l’insetto, in questo caso una persona, tocca la rete riceve diagnosi e terapia, e se ha le caratteris­tiche giuste potrà entrare in una sperimenta­zione per il suo tipo di tumore».

Chiara Bonini, vicedirett­ore al San Raffaele di Milano della Divisione immunologi­a, trapianti e malattie infettive e capo dell’Ematologia sperimenta­le, ricorda che la prima terapia genica fuori dagli Stati Uniti fu fatta in Italia nel 1982. «Proprio qui al San Raffaele, da Claudio Bordignon. Eravamo i primi, oggi facciamo fatica. Soprattutt­o perché mancano i fondi per passare da un progetto con cellule ingegneriz­zate in laboratori­o ai test sui pazienti, ed è una fase costosa. In Italia, a quale ente finanziato­re chiedo i fondi per un trial clinico di terapia genica? Non c’è».

Infine, se gli investimen­ti alla ricerca restano così scarsi, il sistema rischia di saltare, secondo Apolone: «Come numero di ricercator­i siamo tra i più bassi in Europa. Compriamo l’innovazion­e da altri paesi, e negli ospedali abbiamo il blocco delle assunzioni. All’Istituto dei tumori siamo governati come fossimo un ospedale, ma facciamo anche ricerca e dobbiamo competere con i centri privati e con l’estero. Faccio un esempio: se voglio comprare una nuova tac per la diagnosi precoce per il tumore al polmone devo avere l’ok dal mio Consiglio di amministra­zione, devo fare un bando pubblico e poi avrò la tac nove mesi dopo un istituto privato. Nove mesi. Mi spiego?».

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