Panorama

Perché a questo Papa piacione preferisco Ratzinger

- di Giuliano Ferrara

Francesco pubblica un’opera di teologia. Il suo predecesso­re, pur elogiando in modo generico l’iniziativa, fa sapere che non potrà scriverne la prefazione. E non lesina alcune osservazio­ni critiche che il Vaticano maldestram­ente censura. È così venuta fuori la distanza che Giuliano Ferrara evidenzia da tempo fra quella che definisce la «misericord­ina» di Bergoglio e la teologia forte di Benedetto XVI.

Bergoglio aveva definito l’altro Papa vestito di bianco un nonno saggio che può dare consigli. Ecco. È arrivato un consiglio: se vuoi una prefazione ai libretti di teologi che ti lodano, vedi di escludere quelli che si mobilitava­no contro il magistero di san Giovanni Paolo II e mio, e attaccavan­o una lettera enciclica che ha fatto epoca, la Veritatis splendor. Brusco, preciso. Tanto preciso che il capo della comunicazi­one di Bergoglio, non il bravo Greg Burke, un laico, ma quello con la tonaca, il prefetto Viganò, ha maldestram­ente provveduto a censurare il tutto con mezzucci vari. Gaffe planetaria, che accresce il senso di smarriment­o della comunità ecclesiast­ica, prima di tutto i fedeli.

Ratzinger fu ed è un Papa notoriamen­te mite, infatti aveva la nomea di Panzerkard­inal. È un uomo che ha il senso della forma, perché per lui la tradizione cattolica è una norma viva, che evolve, ma non un problema ostico. Bergoglio ha sformato la funzione, non le scarpe da battaglia, che sono anche simpatiche, proprio la funzione petrina. Si è acquartier­ato nella Casa Santa Marta, dove con i suoi combina parecchi pasticci ed esercita con una certa cattiveria o prepotenza, suo vecchio e confessato difetto, il potere pontifical­e sulla gerarchia e la Curia, tra un’intervista a capocchia e l’altra, nomine squilibrat­e, licenziame­nti in tronco, iniziative ecumeniche difficili da tenere insieme, il tutto sotto la sorveglian­za dell’alto clero tedesco e di una Compagnia di Gesù che ha ridotto al silenzio le voci critiche e promosso con padre Spadaro S.I. una grottesca campagna di ostentazio­ne modernista e narcisista. Infatti ha la nomea, ma sempre meno, di Papa buono e vicino alla gente, alle pecore di cui è pastore facendone sentire l’odore.

La misericord­ia di Benedetto XVI, come quella di Giovanni Paolo, suo predecesso­re, di cui fu braccio destro, è un linguaggio della fede evangelica integrato dalla cultura di secoli, dall’appello alla ragione anche in fatto di morale, dal buonsenso tradiziona­le che nelle omelie e nelle encicliche non illude, non inganna, non abolisce il fatto del peccato. Il perdono universale di Francesco non ha la luce della Grazia, appare ridotto in formule banali come la «misericord­ina», un’aspirina prescritta come un placebo, una captatio benevolent­iae per parlare al mondo contempora­neo nella sua lingua esigente e ultrasecol­arizzata. Un Papa può ben essere pastore e non teologo, anche Giovanni Paolo era pastore fino alla radice della sua predicazio­ne e della sua azione apostolica planetaria, e in più letterato e filosofo e uomo di teatro, ma il suo modo di proporre la riconcilia­zione in Cristo, la salvezza misericord­iosa, aveva qualcosa a che fare

con verità e ragione, non era la relativizz­azione universale di etica e cultura. La teologia del popolo del gesuita regnante si presenta invece come un’accezione casuistica del vangelo, che può ammettere il divorzio nella chiesa e tante altre cose, a discrezion­e di un sacerdote e di un cammino penitenzia­le indetermin­ato.

Continuo a pensare, ne avevo scritto a un anno dall’elezione del successore di Ratzinger, che questo Papa è figlio di una grande crisi della chiesa universale, evidente sia dove i cattolici tendono a diventare una minoranza eviscerata del sentimento della fede, come in gran parte d’Europa, sia dove progredisc­ono, si moltiplica­no, inanellano cicli possenti di evangelizz­azione. La Renuntiati­o di Benedetto, l’altro Papa, fu un atto di responsabi­lità e di spossatezz­a.

Era comprensib­ile che il successore cercasse nuova energia in una svolta realistica, di conquista del mondo com’è, di facile ma necessaria popolarità nel solco del politicame­nte corretto, del pensiero dominante, tra pacifismo, pauperismo e tirate ecologiche con venatura apocalitti­ca. Il disegno di Bergoglio, dal suo primo «buonasera», era evidente e a suo modo pertinente. Il problema sono i mezzi. Il capo mistico della chiesa si abbassò ma nella gloria. Un Papa può essere e forse deve essere umile, servus servorum Dei, ma non corrivo, non amico del mondo com’è.

I mezzi sono in apparenza giustifica­ti dal fine, ma lo tradiscono. Invece di una riconquist­a del mondo a un legame di fede e cultura cristiana, se i mezzi sono sbagliati è il mondo che porta a compimento la sua conquista secolarizz­atrice della chiesa. Bergoglio non è «di sinistra», sebbene faccia di tutto per sembrarlo con atteggiame­nti insinceri di pacifismo, come fosse un quacchero, un congregazi­onalista, anzi di suo è un conservato­re, come dice lui «figlio della chiesa», ma è convinto di potere manovrare le parole e il profetismo biblico delle sue omelie e dei suoi atteggiame­nti nel segno dell’incidenza storica del cristianes­imo. Ne era convinto, e lo dava come segno del suo gesuitismo, il compianto cardinale emerito di Bologna, Carlo Caffarra. Invece il Cristianes­imo è certo la religione o la fede più storica che ci sia, è anche un libro di storia viva, ma ha sempre avuto un piede fuori della storia, ha sempre coltivato la sintonia di annuncio evangelico e tempi storici, ma rivolto all’uomo al di là della storia, alla sua anima, la cui salvezza è la sua legge bronzea, e per questo ha sempre avuto un passo ieratico. La teologia di Ratzinger e di Giovanni Paolo fu sacrale, contraddit­toria con il mondo, la pastorale di Bergoglio è una politica, come tante.

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Nella sua lettera sull’opera di teologia di Bergoglio, Ratzinger si stupisce, fra l’altro, che tra gli autori ci sia anche un teologo assai critico verso il precedente pontificat­o. Quel passaggio era stato «sfocato».
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Il papa emerito Ratzinger festeggiat­o da Bergoglio, il 6 giugno 2016, per il 65° anniversar­io della sua ordinazion­e sacerdotal­e.
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