Meglio il pallone
Perché in questi giorni di catenaccio politico e di orrori in campo siriano, l’Italia ha preferito ancora una volta parlare di calcio.
Le notizie: pesanti e in serrata sequenza. Mattarella che si consulta ogni mezz’ora, dichiarazioni in diretta dal Quirinale, un governo da formare con urgenza. Armi chimiche in Siria, bambini morti, moribondi, tensione a picco, russi e americani, navi e missili, preoccupazioni, distruzioni, disperazioni.
Giornali sui tavoli dei bar. Caffè, brioche, pagine sfogliate chiacchierando animatamente. Le prime e poi le seconde, le terze, passano come carta straccia. Avanti così, un occhio distratto ai titoli, fino a fissare quelli che davvero contano, interessano, riguardano i temi urgenti, in ballo e in discussione. Uno per ogni giorno, spunti autentici, buoni per tutti perché tutti sanno, tutti hanno visto alla tele e da dire ne hanno eccome. Prendi il Buffon che sballa, sbrocca, come un grande vecchio, come uno di noi di fronte a una ingiustizia. L’arbitro cornuto con e senza la Var; Crozza contro Benatia, sul fallo a doppio senso, insulti e minacce per un rigore che decide le sorti, fa perdere ogni misura. Cosa penso di ‘sto Napoli non saprei ma intanto dico, butto lì, certo di ottenere replica dal barman, da un tizio mai visto prima. Ma tu guarda questa Fiorentina che
dalla morte del povero Astori sembra rinata. Amore e passione, campioni come ragazzi, come figli, come qualcuno che in fondo ci somiglia.
Sabato, domenica, lunedì. E poi una lunga vigilia da centellinare il martedì, due sfide da Champions, filate, tirate. Barcellona e Real Madrid come luoghi comuni dove incontrarsi senza nemmeno organizzare appuntamenti. Da battere, anzi da sbattere, ma figurati un po’, da accogliere come forze superiori. Sì, sì, però…. Però Messi va a casa, incredibile ma vero, strapazzato da una Roma che pare l’iradiddio. Una notte simile alla notte di Natale anche per chi in giallorosso mai e poi mai. Festa popolare, bagni nelle fontane, piazze vivaci come Plaça Catalunya che chiede l’indipendenza. Di Francesco, meglio di Puigdemont. Lui sì, che d’istinto, di botto, cambia tutto, modulo e posizioni, tattica e ruoli. Una rivoluzione. Un golpe riuscito. Palle e pere. Due palle grandi così. Le pere: tre. Lo vedi? Certe volte si può. Il coraggio altrui come una botta di vita propria.
Sotto con gli altri, col Real. Serve un miracolo, la retorica da «dentro o fuori» riempie le frasi, i capoversi, altri bar e altri scambi all’ora dell’aperitivo. Insieme, dunque, per vedere se davvero la storia non conta più, non contano le statistiche, una consuetudine, la reputazione. Juve, del resto, vedrai. Un miracolo quasi compiuto, un rigore allo scadere. Roba che manda ai matti persino Buffon. Ma come, non è il leader, il vecchio saggio, il migliore? Sì ma al suo posto avrei fatto altrettanto, avrei fatto di peggio. La Var che non piace a nessuno in campionato è una necessità urgentissima in terra straniera. E l’arbitro, ah, l’arbitro ci frega sempre. A noi italiani. A noi della Juve. Ma che dici? Proprio la Juve che stia zitta, che torni allo Stadium e ciao. Gufi di professione, anti-tifosi in permanenza, appassionati cronici, bianconeri inferociti. Andrea Agnelli, in campo, per le strade pure lui, a contestare il sistema, le regole del suo mondo. Agnelli, hai presente quel cognome?
Calcio. Per parlarci pare l’unica moneta. Da spendere aspettando il tram, incrociando il vicino in ascensore,
preparando un meeting, pranzando nei bistrot. Coinvolti in pianta stabile, il resto confinato in una periferia nebbiosa. Come se questo soltanto fosse il modo per autorizzare e autorizzarci ad esprimere, a battersi per una maglia, un colore, ciascuno possessore di una patente presa da ragazzino, punti accumulati con assidua frequentazione di ogni corso possibile, novanta minuti più recupero giorno dopo giorno. Non c’è ceto sociale o anagrafe che tenga. Figurine calciatori da scambiare in cortile, sul marciapiede, prontamente, basta un piccolo cenno, un sospiro e si parte, si sta, alla faccia di questa solitudine schifosa.
Sarri e Allegri; De Rossi e Higuain: loro sì. Gli unici che permettono finalmente di alzare la testa dal display, di mollare il video, la playstation, persino YouPorn. Il computer, intendiamoci, resta acceso. Passi e ripassi, mentre chatti sul mister da esonerare, sul 3-4-3 per ciondolare durante un intervallo concedendo uno sguardo alle news; digitando, una tantum, altrove. Automatismi da aggiornamenti sprovvisti di libidine, gioia a zero. Altri volti, altre voci. Di Maio e Salvini; la sinistra e la destra. La loro partita è un replay, roba già vista. Lenti i passaggi, prevedibili gli scambi. Il tema: spinoso comunque, suscettibilità in agguano, i termini contenuti, blandi, inutili come le conversazioni sul meteo, chissenefrega. Tanto non cambia nulla, nulla cambierà. Tanto cambierà tutto chissà quando però. Una distanza che asciuga i sentimenti, ripristina egoi- smi, egocentrismi aridi, senza rilanciare uno straccio di entusiasmo.
Penosamente transitano altre immagini. Anche queste si somigliano tra loro, da anni: missili, case distrutte, gente che soffre, il volto orribile di Assad. Trump sempre agitato. Putin sempre impassibile. Una sfilata di fronte a un malato terminale. La Siria pare il cognome di un conoscente che deperisce. Se ne va, non c’è più nulla da fare, tocca prendere una distanza perché la morte non posso guardarla ogni giorno così, perché se la guardo penso alla mia. E giù, di nuovo, a chattare, a cazzeggiare, a parlare di pallone con il primo che passa. Vitalità gratuita, offerta da un gioco che non porta pensieri anche quando ti fa andare in bestia. Solo di rimbalzo, correndo dietro al pallone, viene su un sapore cattivo, da smaltire anche quello. Accompagna una foto, un autoscatto dentro il quale scorgiamo un distacco da tramonto precoce, un bisogno di distrazione disperato. Superficialità come rifugio da sfiducia e sfinimento.
Beh? L’oppio dei popoli, si sa, già scritto, già detto. Potente al punto da annullare un flusso di stimoli, informazioni e richiami senza confronti o precedenti. È un attimo, s’intende. L’amarezza è passeggera. Guardare avanti. Un Mondiale senza Azzurri, maledizione. Un vuoto lungo mezza estate. Vabbè, c’è sempre Valentino. E questa Ferrari, magari, mi batte la Mercedes. Ce dici? Ce la facciamo?