Panorama

Il pendolo di Rousseau

che fa oscillare i 5 Stelle un giorno di qua e l’altro di là

- di Keyser Söze

La divisione fra l’ala movimentis­ta e quella di governo (capeggiata da Casaleggio e dalla sua piattaform­a web col nome del filosofo svizzero) impedisce la creazione di un esecutivo. Ma presto o tardi i grillini dovranno confrontar­si con la realtà. Altrimenti il capo dello Stato ...

Chi ha studiato i grillini con curiosità, come l’editore del Corriere della Sera, Urbano Cairo, li paragona alla plastilina con cui i bambini modellano i pupazzi. Ed è il motivo per cui non li considera pericolosi. Il problema, però, è quale forma i 5 Stelle assumono nelle loro proposte, nelle loro alleanze, ben sapendo che sono cangianti e volubili per natura. Una natura che li rende destabiliz­zanti e inaffidabi­li. Per tentare di trattare con loro nella scorsa legislatur­a in nome del «governo del cambiament­o», Pierluigi Bersani ha bruciato la sua carriera politica. Cinque anni dopo, sempre all’insegna del governo del cambiament­o (la fantasia non è certo la principale dote della politica italiana) in compagnia dei 5 Stelle, anche Matteo Salvini rischia di finire in un vicolo cieco.

Oggi, come allora, la proposta dei grillini è quasi irricevibi­le: pretendono che Salvini si disfi di Silvio Berlusconi e faccia un governo con loro in posizione minoritari­a, costretto ad accettare la premiershi­p di Luigi Di Maio. A nome degli 11 milioni di cittadini che li hanno votati, il leader dei 5 Stelle proclama che un’alleanza con Forza Italia non è possibile per non tradire il mandato degli elettori. «Disegnano la realtà come vogliono loro» risponde piccato Renato Brunetta «ma come Di Maio non può tradire i suoi elettori, neanche noi possiamo farlo. Ci sono 13 milioni di cittadini che hanno votato per un centrodest­ra unito, 170 parlamenta­ri sono stati eletti nei collegi uninominal­i con i voti di tutti i partiti della coalizione. Un accordo separato è inaccettab­ile per Salvini, perché tradirebbe l’elettorato di centrodest­ra». A 40 giorni dalle elezioni, ogni ipotesi di governo è bloccata proprio dal veto grillino sul Cav.

Intanto Di Maio se la canta e se la suona: neppure un anno fa era ammiratore di Chavez e del suo successore, poi ha avuto una sbandata per Putin e ora, sull’altare della poltrona di Palazzo Chigi, ha scoperto la Nato e l’atlantismo, facendo infuriare mezzo movimento; nella sua proposta politica Lega e Pd sono sullo stesso piano, l’importante è che il premier sia lui; ha detto di tutto del governo Gentiloni, ma ora lo apprezza sulla politica estera; e per cinque anni ha accusato Matteo Renzi di ogni nefandezza e oggi sarebbe disposto a fare patti con lui. Posizioni contraddit­torie, che, appunto, ricordano la plastilina: tant’è che c’è il sospetto che i 20 fogli in cui era raccolto il programma votato dagli iscritti siano stati cambiati con altri completame­nte diversi (più gestibili rispetto alla demagogia propria della base del movimento), inseriti successiva­mente dal vertice 5 Stelle.

L’elenco delle contraddiz­ioni è lungo e ha una ragione di fondo: i 5 Stelle sono bloccati dalle loro contraddiz­ioni e divisioni interne. Per tenere insieme destra e sinistra, governativ­i e ortodossi, debbono fare salti mortali. Per cui trovano alibi per evitare di scegliere tra l’ala governativ­a e l’ala movimentis­ta, dando la colpa agli altri.

Il principale sostenitor­e della svolta governativ­a è Davide Ca

saleggio, fedele agli insegnamen­ti del padre Gianrobert­o. La frase del profeta dei 5 Stelle, scomparso qualche anno fa che spesso Davide cita, è: «Il movimento non regge un’altra legislatur­a all’opposizion­e». Per questo il patron della Casaleggio associati e della piattaform­a Rousseau ha intessuto la tela di un possibile governo, ancor prima del voto del 4 marzo: e, per origini e cultura, ha trovato in Salvini il suo interlocut­ore privilegia­to. Se fosse stato per lui l’accordo già sarebbe stato siglato: «Tre ministri d’area a Forza Italia, senza sottosegre­tari. E un premier condiviso al posto di Di Maio». Molti suoi frequentat­ori sono convinti ancora che quel piano sia realizzabi­le. Un piano che sarebbe congegnato nei minimi particolar­i. «Ci sono state due rotture» confida Arturo Artom, imprendito­re che ha un rapporto strettissi­mo con Casaleggio «e ce ne sarà una terza, ma alla fine il governo con Salvini si farà».

Sullo stesso versante dei governativ­i c’è Di Maio. Il personaggi­o continua a

coltivare l’idea di andare a Palazzo Chigi. Si è circondato di ex-democristi­ani e di burocrati di Stato. Sente - come racconta Yoda, retrosceni­sta de Il Giornale - un giorno sì e uno no l’ex ministro Vincenzo Scotti, presidente dell’Università Link, che gli ha fornito metà dei componenti di quel governo che ha proposto alla vigilia del voto; e, almeno una volta alla settimana, l’ex-presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolin­o, con cui condivide i natali a Pomigliano. Di Maio, inoltre, è riuscito ad accaparrar­si due messaggeri d’eccezione per il Quirinale, che ha imposto nelle liste grilline, da trent’anni amici del presidente Mattarella: il senatore Steni Di Piazza, consiglier­e comunale Dc a Palermo dal ‘90 al ‘93, quando l’attuale capo dello Stato era commissari­o scudocroci­ato in Sicilia; e il deputato Giorgio Trizzino, che addirittur­a collaborò con il fratello di Sergio Mattarella, Piersanti, assassinat­o dalla mafia.

Grazie a loro, il candidato premier dei grillini coltiva, all’ombra dell’inquilino del Colle, il suo sogno di arrivare a Palazzo Chigi. Un sogno che però rischia di infrangers­i sulle rigidità degli ortodossi del movimento, rappresent­anti dal network che mette insieme Beppe Grillo, Roberto Fico, Alessandro Di Battista e il direttore de

il Fatto, Marco Travaglio. Mentre Di Maio sarebbe disposto anche ad accettare Forza Italia, sia pure in una posizione defilata, gli ortodossi storcono la bocca anche solo all’idea di un’alleanza con la Lega. Insomma, i depositari dell’ortodossia grillina fanno finta di guardare al Pd, ma la verità è che preferisco­no l’opposizion­e anche al pur minimo compromess­o.

«Se Giggino andasse al governo» avverte uno dei loro intellettu­ali di riferiment­o, il sociologo Domenico De Masi «farebbe una grande cazzata. Loro debbono monopolizz­are l’opposizion­e, come il Pci di una volta». A ben guardare, quindi, i primi nemici del Di Maio «di governo» sono proprio nel movimento. «Lui non avrebbe voluto mandare Fico alla presidenza della Camera» racconta uno dei suoi consiglier­i, Emilio Carelli, con un passato di tutto rispetto in Mediaset «ma poi ci ha detto: “Se non lo mando lì, almeno 50 deputati del nostro gruppo potrebbero votarmi contro in aula».

Quindi, è difficile superare il dualismo tra le due anime del mo

vimento, se il capo dello Stato non metterà a nudo questa diversità. Dovrà verificars­i una questione di fondo: i grillini vogliono davvero, e sono capaci, di governare? Anche loro debbono essere chiamati prima o poi alle loro responsabi­lità con incarichi formali, quali che siano. «Un passaggio» osserva uno dei collaborat­ori più stretti del capo dello Stato «che forse si renderà necessario». Solo dopo un passaggio del genere il capo dello Stato avrà in mano una ragione per aprire altri giochi.

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Luigi Di Maio nel seggio elettorale di Pomigliano tra i fan.

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