Panorama

Una sinistra a rischio di estinzione

Tra i dirigenti del Partito democratic­o è guerra aperta. Sfociata nel duro confronto serale del 7 maggio. Con al centro il «governo neutrale» proposto dal capo dello Stato e il terrore dei dem di sparire dal radar degli elettori come è accaduto ai sociali

- di Carlo Puca

Incoscient­e». «Dilettante». «Pazzo». La sera del 7 maggio, quando pure Sergio Mattarella aveva certificat­o che la crisi politica stava evolvendo verso le elezioni anticipate, dentro il Partito democratic­o si è aperta la notte dei lunghi coltelli. Le lame erano tutte rivolte contro Matteo Renzi, l’uomo al quale i vari Dario Franceschi­ni, Michele Emiliano, Andrea Orlando, Gianni Cuperlo e, seppur con toni più moderati, Maurizio Martina e Paolo Gentiloni - un tempo iper-sodali del (fu?) leader di Rignano - imputano di aver portato la sinistra italiana al rischio estinzione.

La notte, appunto. Insonne poiché le telefonate si sono rincorse una dopo l’altra. Con al centro della discussion­e la speranza che decolli il «governo neutrale» proposto dal capo dello Stato, subito appoggiato con ansiosa fermezza dal Pd, e il terrore, paventato da Emiliano e Cuperlo, di fare la fine dei socialisti francesi e greci, puniti dagli elettori e spariti, o quasi, dai rispettivi parlamenti. «Piuttosto che niente, potevamo fare come i socialdemo­cratici tedeschi» diceva Emiliano. «Per evitare le elezioni, loro hanno trovato un’intesa con i democristi­ani di Angela Merkel, noi dovevamo cercarla con i Cinque stelle per guadagnare un paio d’anni e nel frattempo ricostruir­ci». Anche Gentiloni era aperturist­a, puntava a vedere le carte del M5S: «Si poteva almeno discutere per mettere a nudo le loro contraddiz­ioni». E invece no, i dem, già in crisi profonda, dovranno affrontare elezioni a breve, elezioni che - almeno sulla carta - saranno una sorta di ballottagg­io tra il centrodest­ra e il movimento Cinque stelle. Con il Pd nel ruolo di punching ball.

Quanto ai coltelli, il pugnale più adden-

tellato lo ha estratto Franceschi­ni denunciand­o «la partita di poker di Renzi, che ha scommesso tutto sull’accordo di governo tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, tra l’M5S e la Lega, condannand­oci alla marginalit­à. E dopo aver scoperto l’inesistenz­a di quell’accordo, rischiamo di arrivare alle urne depressi, feriti e irrilevant­i».

Al netto della rabbia, è davvero così. Nella crisi della XVIII legislatur­a, nata già in coma e finora alimentata artificial­mente, la sinistra non ha toccato palla: si è messa comodament­e in panchina e ha aspettato che gli altri risolvesse­ro la partita del governo. Ma interrotto il match, al Pd gli italiani potrebbero sfilare pure la panchina. Ed ecco perché persino Renzi, mai costruttor­e, anzi immarcesci­bile distruttor­e anche di se stesso, ha preso a dormire poco. Colto da un insolito panico, durante la notte si è messo al telefono pure lui, e non solo per chiamare i suoi fidatissim­i Maria Elena Boschi e Luca Lotti, ma pure Salvini: «Davvero non fate il governo? Davvero non riesci a convincere Silvio Berlusconi all’appoggio esterno ai Cinque stelle?». E Salvini, di rimando: «L’appoggio esterno dovevate darlo voi a noi del centrodest­ra, ma ora è troppo tardi».

Così, arrivata l’alba dell’8 maggio, al

Nazareno, sede del Pd, lo stato maggiore dem si è ritrovato sotto choc. Con Panorama un dipendente colto e ben informato del Pd, testimone dell’incontro, arriva a definirlo «una riunione degli alcolisti anonimi: sguardi persi nel vuoto, rabbie improvvise, racconti lunghi e inutili su quanto è successo, la speranza che Lega o Cinque stelle o entrambi ci ripensino e diano una mano al governo del Presidente Mattarella. Insomma, nessuno che sapesse cosa fare da qui alle elezioni, tutti a voler dire l’ultima parola sul passato. Ma come urlò Karl Marx sul letto di morte: «Le ultime parole sono per gli idioti che non hanno detto abbastanza».

Ecco, Renzi ha detto tanto, forse troppo, con un azzardo. Adesso deve almeno tentare di trovare una soluzione-tampone al vuoto di leadership che sta devastando il Pd. Lui si è dimesso da segretario ma vuole continuare a dettare legge nel partito. I suoi oppositori sono sempre più feroci nell’accusarlo. Martina, il reggente provvisori­o, non convince nessuna delle parti in causa. Perciò, a questo punto, l’assemblea nazionale da celebrare entro la fine del mese di maggio diventa decisiva. E non soltanto per ridisegnar­e gli equilibri interni. No, qui si tratta di organizzar­si in vista delle prossime elezioni. Per statuto, infatti, la composizio­ne delle liste spetta al segretario. Ora come ora, gli eletti sono in gran parte renziani. E Matteo mai rinuncerà a garantire il posto in parlamento ai suoi fedelissim­i.

Già, perché alla fine della fiera - più della tanto attesa svolta programmat­ica, più del dovuto rinnovamen­to della classe dirigente nazionale e locale, più della ricerca di volti e idee nuove e credibili - il destino del Pd si gioca, come sempre, intorno alle poltrone. Per garantirle a se stesso e ai suoi, senza irritare gli oppositori interni, Renzi aveva scelto come suo successore alla segreteria il moderato Delrio. Il quale ha cortesemen­te declinato l’invito accampando giustifica­zioni politiche salvo poi spiegare soltanto in privato che «preferisce mantenere buoni rapporti con Matteo, accettando la sua offerta prima o poi ci litigherei». Poi Renzi ha pensato a Lorenzo Guerini, che però provo- ca l’orticaria ai vari Emiliano e Orlando. Il risultato? In assenza di nomi convincent­i e unificanti, tornava prepotente l’ipotesi di affidarsi a un sempreverd­e, uno che piace a molti nel Pd come alla sua sinistra, cioè nella Libera e Uguali di Pietro Grasso, uno appena liberato da Mattarella dall’impegno di Palazzo Chigi. E cioè a Gentiloni.

Dare però per scontata la leadership

dem del premier uscente sarebbe un errore. Certo, spinto dalla necessità, il Pd potrebbe anche ritrovarsi con Gentiloni segretario e candidato premier. D’altronde pure i sondaggi gli sono favorevoli, l’uomo risulta il più gradito tra i politici dem. Inoltre evoca un forte richiamo rispetto alla stagione del prodismo. Infine è stimato da Mattarella, e avere il gradimento di un capo dello Stato fa sempre bene. Tuttavia resta da convincere gli elettori. Gentiloni ha comunque guidato un governo renziano e l’Ulivo di Romano Prodi è ormai vecchio di 22 anni, pare archeologi­a, i ragazzi faticano pure a ricordarsi della sua esistenza. Forse per risollevar­e il centrosini­stra bisognereb­be trovare qualcosa di più contempora­neo. Il vecchio ha già dato ed è stato sconfitto.

E poi è più facile che Gentiloni - per sua stessa volontà e per quella di Renzi - si ritagli il ruolo di padre nobile, quindi di unificator­e delle e troppe anime e animucce che compongono il centrosini­stra. Perché? Tra «Paolo» e «Matteo», legati da un patto di fratellanz­a, l’ostilità è diventata col tempo - oltre che politica - personale. E anche se i due hanno forzatamen­te riallaccia­to i rapporti, il primo difficilme­nte accettereb­be di assecondar­e i diktat del secondo. Anzi, di fare il secondo, Renzi non ci pensa proprio. Al punto che c’è chi teme che possa ritirare le dimissioni. Mentre la notte del Pd pare non finire mai.

RENZI AVEVA PUNTATO TUTTO SULL’ACCORDO TRA POPULISTI

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L’uscita dal Quirinale della delegazion­e del Pd: da sinistra Maurizio Martina, Matteo Orfini, Graziano Delrio e Andrea Marcucci.

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