Cabina elettorale
Ve lo immaginate un voto in piena estate? Il difficile domani di Mattarella
Ma cosa farà Sergio Mattarella domani? Potrà interloquire con un Parlamento - l’attuale o il prossimo cambierà poco - formato da forze politiche che hanno bocciato a stragrande maggioranza il suo governo del Presidente? E ancora, quale efficacia avrà la sua moral suasion? Con tutto il rispetto e la stima per il capo dello Stato non si tratta di domande campate in aria, se si analizza una trattativa che, per la prima volta nella Storia repubblicana (ma pure negli annali della monarchia il fatto è inedito), vede un Parlamento morire ancora prima di nascere.
Un fallimento di cui Mattarella è stato testimone, ma anche attore. Con una premessa: sicuramente il risultato del voto del 4 marzo era complicato di per sé e le maggiori responsabilità ricadono su quelle forze politiche, specie quelle che hanno avuto più consenso, che non hanno avuto la capacità di dare un governo al Paese. Su questo non ci sono dubbi. Ma anche chi avrebbe dovuto essere il mallevadore di quell’obbligo contratto con gli elettori è stato preso in contropiede e ha preso decisioni che adesso sono contestate. A cominciare da un passaggio che è mancato nell’intera sceneggiatura della crisi: quello di tentare in ogni caso di dare a qualcuno un preincarico per formare un governo, financo alla coalizione che sulla carta ha il maggior consenso nelle attuali Camere, cioè il centrodestra. Il capo dello Stato ha pervicacemente evitato questa fase, ha sempre detto «no» a Matteo Salvini, avvalorando nei fatti l’ipotesi che ci fosse un veto internazionale (Washington, alleati della Nato, Cancellerie europee) sul personaggio, per le sue posizioni in politica estera. Un’ombra di non poco conto. Inoltre saltando Salvini, specularmente, Mattarella non ha potuto provare neppure Luigi Di Maio. Decisioni che hanno suscitato perplessità, anche in chi non avrebbe avuto nessuna implicazione in questi tentativi. «È una scelta che non ho capito, perché in ogni caso avrebbe messo di fronte alle loro responsabilità sia Salvini, sia Di Maio» ripete dall’inizio della crisi Matteo Renzi. «Si è tanto criticato Napolitano per il suo interventismo» è il commento laconico di Emanuele Fiano, responsabile istituzionale del Pd «ma anche questa è una forma di interventismo». Scelte quelle del Presidente che prestano il fianco, per l’oggi ma anche per il domani, a chi vuole polemizzare con il Quirinale o metterne in dubbio l’imparzialità. «Quel no a Salvini ci darà la possibilità» confida Ignazio La Russa, uno dei consiglieri di Georgia Meloni «di fare una campagna contro di lui, come l’abbiamo fatta contro Napolitano».
Ora la linea di difesa del Colle per
spiegare il proprio atteggiamento, è che si può dare «l’incarico» per la formazione di un governo, solo a chi dimostra di avere una maggioranza in Parlamento. Un ragionamento che sul piano formale non fa una piega. Solo che è anche difficile spiegare come si possa tornare al voto dopo cinque mesi, avendo messo in campo per risolvere la crisi di governo solo «incarichi esplorativi»: nessuna investitura, ma solo esplorazioni. Esplorazioni, va detto, che hanno avuto al centro il continente dei Cinque stelle, in considerazione del successo elettorale avuto come partito. Prima il governo grillini-centrodestra. Poi, il Quirinale si è impegnato a fondo per far nascere un governo grillini-Pd: «Il Colle e i miei oppositori nel partito» racconta Renzi «mi hanno messo in mezzo in tutti i modi per dare il via libera a questa alleanza».
Paradossalmente, anche l’epilogo, cioè la proposta di un «governo tecnico», è stata vista indirettamente funzionale a Di Maio e soci: l’evocazione di un governo simil-Monti, per il ricordo che ha lasciato nel Paese, ha aperto la strada, infatti, a chi per primo ha chiesto le elezioni subito, cioè i Cinque stelle, per uscire dal cul
de sac in cui si erano cacciati. «La verità è che Mattarella» confida Stefano Ceccanti, costituzionalista di riferimento del Pd «ha pensato di formare il governo, con un solo copione in testa: coinvolgere in qualsiasi modo i grillini. Un errore che Giuliano Amato, per esempio, non avrebbe mai fatto. E ora assistiamo alla confusione generale».
Non per nulla lo stesso desiderio di
non scontentare i grillini ha spinto Mattarella a saltare a piè pari l’ipotesi di un governo istituzionale affidato al presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Un’ipotesi
di scuola per portare il Paese al voto (governo Fanfani 1987) e che, anche in questo caso, sarebbe stata possibile: un governo presieduto da una carica istituzionale, votata a suo tempo anche dai Cinque stelle, e nel contempo un esponente proveniente dal centrodestra, che avrebbe per lo meno reso meno stridente il mancato incarico a Salvini. E, invece, niente. I grillini hanno fatto sapere di non gradire. E il capo dello Stato ha spiegato a Berlusconi che il presidente del Senato, di estrazione di centrodestra, sarebbe stata vista di parte dai Cinque stelle. Ma se si comincia ad analizzare sangue e provenienza delle cariche istituzionali, si può arrivare a mettere rischiosamente in discussione la stessa carica presidenziale. «Nel declino della politica» si è sfogato uno dei consiglieri più ascoltati del Cav «hanno posto anche queste considerazioni su una carica come la presidenza del Senato».
Insomma, il «governo tecnico» da mol- ti viene vista come una forzatura. Ma a differenza di quelle d’antan di Napolitano, questa di Mattarella si scontra anche con i numeri. «Guarda Presidente» gli ha spiegato Meloni, nell’ultimo incontro al Quirinale «che il governo tecnico ha sulla carta meno voti in Parlamento di un possibile incarico a Salvini: e allora perché il tecnico lo mandi in Parlamento e Salvini no?». Un’idea, quella del «tecnico», che potrebbe avere anche l’effetto contrario rispetto alle intenzioni del capo dello Stato: rischia, infatti, di mettere alla sbarra le istituzioni invece che i partiti. «C’è la possibilità» osserva da lontano un Renzi sconfortato «che non lo voti nessuno. Nemmeno noi, spero. Il rischio è che finisca tutto in un grande casino».
Un casino, appunto, che potrebbe
investire pure il Quirinale. «Si può dire quel che si vuole» spiega Renato Brunetta «ma il governo dei tecnici avrà 120 voti alla Camera e 55 al Senato. Con tutti gli altri contro. Così il governo del Presidente parte sfiduciato e di converso, purtroppo, pure il capo dello Stato darà l’impressione di avere la fiducia solo di un’esigua minoranza del Parlamento».
Dulcis in fundo il braccio di ferro tra Mattarella e Di Maio-Salvini sta offrendo un’altra novità: il rischio di un voto a luglio sotto l’ombrellone. Ipotesi che favorirebbe di nuovo i Cinque stelle che hanno il loro voto concentrato nel Meridione, visto che da quelle parti le vacanze si fanno a casa, mentre al Nord, dove il centrodestra elettoralmente la fa da padrone, si parte. Ci mancava solo un’elezione condizionata dalla stagione, per dare un altro colpo al Belpaese.