Telecom ricomincia dalla Cdp
Elliott non resterà e anche i francesi torneranno a casa. A Cdp il compito di trovare un nuovo assetto.
«L’azienda di tutti? No, l’azienda di nessuno». Bruno Visentini, grande avvocato, ministro delle Finanze, esponente di punta del Partito repubblicano, era presidente della Olivetti quando lanciò il suo anatema contro la public company. La battuta viene in mente oggi nell’immaginare il futuro di Telecom Italia (rinominata Tim). Il fondo Elliott è stato in gamba, ha coalizzato una maggioranza di azionisti (per lo più piccoli e istituzionali) e ha messo ko Vivendi. Ma non avrebbe potuto vincere senza il contributo fondamentale del 4,2 per cento comprato per quasi 800 milioni dalla Cassa depositi e prestiti, spinta dal ministro dello Sviluppo Carlo Calenda in accordo con il premier Paolo Gentiloni.
Vincent Bolloré paga la sua arroganza, tuttavia resta sempre l’azionista numero uno con il 23,9 per cento. Il ribaltone che ha portato alla presidenza Fulvio Conti, assegnando 10 consiglieri su 15 alla nuova maggioranza, ha confermato il piano industriale confezionato da Amos Genish, direttore generale espresso da Vivendi, il quale diventa amministratore delegato. Già questi passaggi mostrano che parecchie cose non tornano. E in Borsa ci si chiede chi comanda davvero. Elliott non è un socio industriale, ha avuto successo, ma adesso
deve incassare. Ha acquistato il 9,2 per cento del capitale quando un’azione valeva 75 centesimi (ora quota 86). Ha stabilito un contratto di put and call con Jp Morgan in base al quale se entro giugno del prossimo anno il titolo scende sotto 81 centesimi o sale oltre 89, il fondo può uscire. E Vivendi? Resterà un socio sconfitto e silente? Una rivincita lanciando un’offerta pubblica di acquisto è troppo costosa, mentre gli azionisti del gruppo francese vogliono recuperare le perdite provocate dalla campagna d’Italia. Il prossimo governo potrebbe rimuovere il golden power contro il quale i francesi hanno fatto ricorso in tribunale, aprendo così la strada per un disimpegno. A quel punto, l’unico azionista stabile resterebbe la Cassa depositi e prestiti che intende aumentare la sua quota. La scelta spetta ai nuovi vertici perché entro il mese scadono sia il presidente Claudio Costamagna sia l’amministratore delegato Fabio Gallia. «Costamagna va riconfermato», ha proclamato Giuseppe Guzzetti da sempre un grande elettore a nome delle fondazioni di origine bancaria, azioniste di Cdp con il 15,93 per cento. È una corsa contro il tempo. Se farà le nomine Gentiloni, come ultimo atto della sua permanenza a palazzo Chigi, è molto probabile che il presidente manterrà la poltrona, mentre per l’amministratore circola il nome di Massimo Tononi. Se toccherà a un altro governo, tutto resta in alto mare. L’unico punto fermo è il ritorno dello «Stato telefonista». Una nazionalizzazione non è realistica, ma la presenza pubblica è ormai determinante. Il primo obiettivo è scorporare la rete creando una nuova società quotata in Borsa nella quale far confluire Open Fiber, la joint venture tra Enel e Cdp. Per la Cassa sarebbe un sollievo, ma anche Enel potrebbe liberarsi di un investimento tutto sommato periferico. Tra il dire e il fare c’è di mezzo un mercato delle telecomunicazioni in turbolenta trasformazione sul quale la politica può diventare un fardello troppo pesante.