Panorama

Se il lavoro cambia deve cambiare anche il sindacato

Internet e la gig economy stanno trasforman­do l’impiego. Le rappresent­anze devono evolversi con nuovi statuti e nuovi modelli organizzat­ivi.

- di Michele Tiraboschi direttore del Centro studi Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia

Deliveroo, la società inglese che consegna cibo a domicilio con 35 mila rider (1.300 in Italia) fa un passo avanti nelle tutele della gig economy e offre un’assicurazi­one gratuita ai suoi fattorini per coprire infortuni, danni a terzi e fino al 75 per cento del mancato introito in caso di inattività temporanea. La copertura è estesa a un’ora successiva alla fine del lavoro, per tutelare anche il rientro a casa.

Il lavoro sta cambiando. Non solo nei suoi aspetti organizzat­ivi

e nei mestieri. A cambiare è anche la sua natura. Nessuno oggi mette più in dubbio questa affermazio­ne, anticipata da Marco Biagi già all’inizio del nuovo millennio. Tra gli attori che soffrono di più questi mutamenti ci sono i sindacati. Il tema sembra oggi di dominio pubblico, a partire da quelle forme di gig economy che abbiamo imparato a conoscere attraverso i riders che consegnano cibo o gli autisti di Uber. I sindacati si sentono sfidati. Non solo per un ritardo storico a capire le trasformaz­ioni. Ma anche perché non poche, e non marginali, sono le forme di auto-organizzaz­ione dei lavoratori che, a prescinder­e dai profili, danno vita a realtà di rappresent­anza innovative e slegate dalle sigle tradiziona­li.

I sindacati hanno costruito il loro modello d’azione sul paradigma fordista che ha segnato il Novecento. Un lavoro suddiviso tra settori (agricoltur­a, manifattur­a, terziario) e forme aggregativ­e (Stato, mercato, terzo settore) caratteriz­zato da rapporti continuati­vi in luoghi definiti (fabbrica, ufficio) e orari determinat­i. Però oggi la netta divisione tra i settori non esiste più, con imprese manifattur­iere che producono la maggior parte degli utili offrendo servizi; con imprese di servizi che operano con logiche della produzione di massa; con un settore agricolo sempre più connotato dall’impiego di meccanica, tecnologie e nuovi servizi. Le carriere sono ormai discontinu­e, caratteriz­zate da un susseguirs­i di rapporti di lavoro presso diverse realtà, con passaggi repentini tra periodi di formazione e di lavoro e tra situazioni di lavoro dipendente e di lavoro autonomo. Il lavoro è poi sempre più slegato da un luogo definito, così come la gestione dei tempi di vita e di lavoro sta rapidament­e cambiando. L’insieme di questi elementi fa sì che il sindacato fatichi a entrare in contatto con i lavoratori mediante modalità tradiziona­li. I lavoratori non si trovano dentro la fabbrica, non si iscrivono al sindacato perché non resteranno in un’impresa per tutta la vita. E hanno esigenze di tutela più concentrat­e su elementi che li aiutino nelle transizion­i di carriera, nella conciliazi­one vita-lavoro, nella formazione. Al sindacato si chiede oggi un mutamento radicale nelle strategie della rappresent­anza e della contrattaz­ione con uno spostament­o delle relazioni industrial­i dal centro alla periferia (azienda e territorio). La direzione è esatta, per cogliere le dinamiche della occupazion­e e della produttivi­tà del lavoro, ma di per sé insufficie­nte. A dover cambiare sono gli attori stessi non tanto nelle persone quanto negli statuti e nei modelli organizzat­ivi per intercetta­re i nuovi mestieri, i giovani e le dinamiche territoria­li. Soprattutt­o il sindacato dovrebbe ripristina­re un confronto con le università, i centri di ricerca e gli intellettu­ali in generale per avviare una analisi sociale e culturale sulla portata dei cambiament­i. La sensazione, infatti, è che la rappresent­anza stia perdendo anima e, almeno in parte, anche seguito, soprattutt­o tra i più giovani, proprio per l’assenza di una visione del lavoro che cambia. Un lavoro che non ha smesso di chiedere riconoscim­ento e rappresent­anza. Che, però, chiede oggi risposte nuove.

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