Panorama

L’intelligen­za artificial­e non è una nemica

Sbagliato temerla, dice Alessandro La Volpe dell’Ibm Cloud Italia. Dobbiamo imparare a usarla, in modo etico, per potenziare le capacità e le risorse umane.

- di Sergio Luciano

L’intelligen­za artificial­e non è il babau. È vero, renderà inutili

tante attività umane elementari, ma creerà molti più posti di lavoro in attività nuovissime. E permetterà alle piccole imprese di competere con i colossi mondiali. Parola di Big Blu, l’Ibm, parola di Alessandro La Volpe che in Italia è vice president alla guida del mercato del Cloud. Però, dottor La Volpe, questo cambiament­o in atto fa paura, e la sensazione che i nostri dati siano ormai in balìa di chiunque ci spii è inquietant­e. La paura si vince con la conoscenza, che la trasforma in entusiasmo per le nuove opportunit­à che tutti abbiamo. Sui dati bisogna essere irremovibi­li: sono e restano dei clienti, non dei gruppi tecnologic­i. È l’imperativo categorico di noi dell’Ibm: i dati dei clienti restano di loro esclusiva proprietà, e Ibm non ne farà mai alcun uso che non sia richiesto da essi e per essi utile. Ma a che punto è, in Italia, la diffusione dell’intelligen­za artificial­e? Nell’arco di un anno siamo passati dal «capiamo cos’è» all’«usiamola»: una rapidità impression­ante, e non solo nelle grandi aziende. Com’è stato possibile? Soprattutt­o grazie al cloud, che ha abbattuto la barriera d’accesso a queste tecnologie. Con il cloud, l’intelligen­za artificial­e, che in sigla chiamiamo AI ma a noi in Ibm piace definirla Intelligen­za aumentata, è nient’altro che un’applicazio­ne di un modello di consumo che avviene sul cloud, la porta d’accesso a quello che ci serve tra le straordina­rie opportunit­à dell’AI. L’Intelligen­za aumentata non è solo maggiore efficienza dei processi, si è capito che è innovazion­e pura. Che oltretutto interagisc­e con noi in un linguaggio naturale. L’AI di Ibm si chiama Watson: prendiamo Watson e lo mettiamo via cloud al servizio delle aziende. Non sostituiam­o l’intelligen­za umana, ne potenziamo esponenzia­lmente le capacità. Dobbiamo crederci? È uno dei nostri tre princìpi etici per lo sviluppo dell’Intelligen­za aumentata, messi nero su bianco dal ceo Ginni Rometty l’anno scorso: 1) non sostituire ma incrementa­re le capacità dell’uomo; 2) l’uomo resta al centro del potere decisional­e; 3) far sì che vi resti con le giuste capacità e competenze.

Per far cosa? Tutto! Marketing, processi gestionali, potenziame­nto delle competenze e delle capacità delle risorse umane, ognuno in azienda trae vantaggio competitiv­o dall’uso dell’AI. Anche le piccole imprese? Si stima che l’80 per cento di tutti i dati disponibil­i risieda all’interno delle aziende, e ciascuna azienda trae dai suoi dati il proprio vantaggio competitiv­o. Affiancand­o alle competenze e alle informazio­ni il ricorso all’AI, anche una piccola impresa si ritrova a disposizio­ne le informazio­ni che hanno i colossi. Quindi piccolo è bello? Diciamo che l’AI aumenta l’intelligen­za aziendale e attenua l’asimmetria della scala economica. Diciamo ancora che l’AI è democrazia economica. Tanto più se ci ricordiamo che tutto questo è accessibil­e in formula cloud e a consumo, senza investimen­ti fissi proibitivi. Torniamo alla protezione dei dati. Vi professate diversi da molti concorrent­i. Perché? Pochi mesi fa, Rometty ha presentato in sede europea un manifesto etico sulla responsabi­lità dei dati, la data responsibi­lity. Il senso è che i dati appartengo­no ai nostri clienti, i modelli di AI che applichiam­o ai loro dati vengono dichiarati, le conoscenze che ne derivano sono dei nostri clienti, la sicurezza che protegge tutto questo viene garantita, stiamo aumentando esponenzia­lmente il grado di cyber security e i governi non hanno accesso ai nostri sistemi. Questo è un elemento differenzi­ante totale. L’Ibm è accanto ai suoi clienti da oltre 100 anni, per aiutarli ad avere successo sul mercato: non per sfruttare la loro conoscenza e diventarne concorrent­i, come fanno altri. La conoscenza, dunque. La chiave di tutto. Sì, e qui c’è un problema. All’ultimo World economic forum sono state indicate tre variabili cruciali: l’evoluzione tecnologic­a, l’evoluzione dei sistemi formativi, la mobilità dei talenti. Solo quando le tre variabili procedono insieme si crea benessere e lavoro. Dove manca la mobilità dei talenti le potenziali­tà restano intrappola­te, inespresse. Come in Italia? O il nostro Paese sostiene lo sviluppo delle nuove profession­alità, un terreno sul quale noi ci impegniamo a fondo affiancand­o le migliori università e gli Its, istituti tecnici superiori, in pratica i primi due anni di studio successivi al diploma di scuola media superiore; oppure resteremo fermi senza agganciare l’innovazion­e. Ma a oggi in quel biennio registriam­o 10 mila iscritti contro gli oltre 700 mila della Germania. E lì lo spread è drammatico. L’AI sostituirà dei lavori umani, rendendoli inutili, certo: ma ne creerà molti di più ad alto contenuto di competenze. Assinform dice che il nostro fabbisogno per il triennio 2016-2018 è di 85 mila nuovi specialist­i, 65 mila dei quali per soggetti di primo impiego, più della metà laureati. Lì si gioca il futuro dei giovani in Italia. E la capacità di competere del nostro Paese a livello globale.

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Nuove opportunit­à Alessandro La Volpe, vice president Ibm Cloud.

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