Prova a spegnermi
Smartphone pieghevoli, tv intelligenti, antenne per internet ultraveloce (anche in Italia). Panorama è entrato nel quartier generale di Zte, la compagnia di telecomunicazioni che il presidente americano ha messo al bando. La mossa, però, rischia di essere
Non ci sono villette sfarzose che affacciano su prati immacolati, né circoli sportivi chic, negozietti o ristoranti eleganti, come nella provincia agiata di San Francisco dove hanno casa Google, Facebook, Netflix e gli altri titani del web. A Shenzhen, capitale della Silicon Valley cinese, polo rampante dell’avanguardia globale, si preferisce ostentare l’assenza di spazio per i fronzoli: la città è invasa da un’inquietudine febbrile che, nell’ultimo quarto di secolo, l’ha resa un cantiere perenne proteso verso il cielo. L’ha elevata, da villaggio di pescatori con 30 mila abitanti ai margini di Hong Kong, ad alveare di grattacieli alla Blade
Runner, a labirinto di fabbriche in cui lavorano 18 milioni di persone, s’inventano robot e si sequenzia il dna, si sperimentano materiali avanzati ed energie pulite. Sfiorando, nel 2017, i 300 miliardi di euro di Prodotto interno lordo, più di Portogallo e Irlanda.
Qui Apple ha fiutato l’affare aprendo un centro di ricerca e sviluppo, qui hanno sede i colossi locali della telefonia mondiale, Huawei e Oppo (nell’ordine, terzo e quinto produttore di smartphone sul pianeta) e, dal 1985, il gigante delle telecomunicazioni Zte. La cui storia è il perfetto doppio, la parabola gemella dell’ascesa indocile di Shenzhen: è iniziata come l’avventura di un gruppetto di ragazzi che costruivano giocattoli in uno stanzino angusto simile ai garage californiani, è passata per i centralini che per primi hanno connesso i borghi sperduti della Cina rurale e oggi fattura più di 14 miliardi di euro l’anno. Ha sestuplicato gli utili dal 2016 al 2017, è alfiere del gruppo sceltissimo di aziende che guidano la locomotiva del 5G, la rete mobile di nuova generazione. Quella che farà viaggiare in internet con il turbo rispetto agli standard attuali e con tempi d’attesa nulli; sarà l’architrave di case e città smart e di tutta la tecnologia a banda ipertrofica che bolle all’orizzonte.
Nel suo quartier generale visitato da Panorama, nei laboratori blindati e nelle aree espositive in cui sfilano serrature domestiche che si sbloccano con le impronte digitali, televisori che riconoscono lo spettatore e gli propongono i programmi preferiti, cellulari pieghevoli e scatolotti con 256 antenne stipate nel grembo, si tocca quel cambio di paradigma innescato da Pechino per la Cina che verrà: passare, entro il 2025, da «high speed» a «high quality», da alta velocità produttiva a qualità massima dell’innovazione. Da manifattura low cost del mondo, a suo pensatoio. Una prospettiva in grado di scuotere il presidente americano Donald Trump, che vede messa in discussione la supremazia intellettuale e dei brevetti. E che, proprio con Zte, bersaglio simbolico in quanto di proprietà statale per il 51 per cento del capitale, ha ingaggiato una battaglia sfociata in una spy story.
Tutto inizia con la società di Shenzhen che vende apparati a Iran e Corea del Nord, aggirando l’embargo imposto dagli Usa verso le due nazioni. La sanzione, saldata fino all’ultimo centesimo, è una multa miliardaria, accompagnata dall’obbligo di licenziare i dirigenti artefici di quello che, per Washington, è un affronto. Sembra tutto rientrato, ma il Dipartimento del commercio a stelle e strisce indaga e s’indigna, sostenendo che i responsabili non sono stati epurati, bensì ricompensati dalla compagnia con un bonus.
Una beffa che Zte deve pagare cara: secondo Donald Trump, per i prossimi sette anni il gruppo cinese non potrà ricevere componenti statunitensi, essenziali per le sue catene di montaggio. Un incidente dal potenziale fatale che, dopo giorni di stordimento, comincia a essere tamponato: trapela la voce che i dipendenti colpevoli sarebbero stati davvero allontanati, mentre i premiati non erano coinvolti nell’affare con Iran e Corea. Sarebbe un equivoco. L’azienda di Shenzhen ha fatto ricorso al Dipartimento del commercio americano. Non è noto quanto ci vorrà per il verdetto, ma nel frattempo si muove anche il governo di Pechino: durante un incontro diplomatico tra le due superpotenze, la Cina avrebbe chiesto agli Stati Uniti di ripensarci, senza successo. Ma non è l’unica tegola per il colosso di Shenzhen. Il personale delle basi militari americane non potrà più acquistare cellulari fabbricati dalle aziende cinesi Huawei e Zte, perché il Pentagono li considera un rischio «inaccettabile» per la sicurezza.
Sia chiaro, il pasticcio non è un atto
di schizofrenia o arroganza americana, ma il riflesso della paura di perdere centralità sullo scacchiere economico internazionale: gli stessi timori che portano Trump a sventolare l’ipotesi di un muro di dazi sulle importazioni di merci straniere per tutelare l’industria locale. Temendo trappole di spionaggio orientale. Un atteggiamento da battaglia stigmatizzato da più parti, a cominciare dall’agenzia economica Bloomberg: in un editoriale, la politica della Casa Bianca viene liquidata come «una cattiva idea», giacché il protezionismo non farà altro che accelerare l’autarchia cinese o il dirottamento di generosi capitali verso mete meno ostili.
Teoria che è già pratica: Zte ha ripiegato sui chip realizzati dalla taiwanese MediaTek per inserirli nei suoi prodotti. Fino al blocco, il fornitore privilegiato era l’americana Qualcomm. Compagnia che ora rischia di perdere montagne di dollari di fatturato se il diktat di Trump non si dovesse ammorbidire. E per bocca del suo vicepresidente senior Fan Xiaobing, l’azienda di Shenzhen allarga il campo dell’appartenenza identitaria, sottolinea con Panorama di «non essere solo una realtà cinese, ma una compagnia mondiale» sottolinea Xiaobing. «Metà del fatturato lo generiamo all’estero e abbiamo centri di ricerca in tutto il mondo». Anche in Italia, a L’Aquila, con grande enfasi sul 5G, accanto a un polo di alta formazione a Roma, inaugurato presso l’università di Tor Vergata; il Bel Paese, in generale, è considerato uno snodo per lo sviluppo europeo, perciò riceverà mezzo miliardo di euro nei prossimi cinque anni e ha beneficiato di 2 mila posti di lavoro tra assunti diretti e indotto.
Per i prossimi mesi, intanto, la multinazionale cova il Gigabit phone, un dispositivo in grado di scaricare film e videogame ad alta risoluzione in un pugno di secondi. Qui, nel quartier generale della società, ne parlano con orgoglio, scansando quel riserbo, quella segretezza che di regola ammanta gli annunci dei prodotti in arrivo. Forse un modo per esorcizzare lo spettro delle interferenze di Trump.
Sbandierando il talento di avanzare veloce, Shenzhen svela il paradosso nel quale il presidente degli Stati Uniti rischia di precipitare: marginalizzare il peso americano, per tentare di difenderlo; allontanarsi dalla nuova frontiera dello sviluppo globale, pur di avvitarsi nei suoi confini e lanciare una guerra fredda tecnologica contro la Cina. Contro chi, la partita dell’innovazione, la sta già vincendo. (