Quel selfie è un Caravaggio
Una provocazione? Solo in parte, perché l’era dello scatto postato sui social ha qualcosa in comune con l’epoca della ritrattistica dei secoli passati. Come dimostrano due grandi mostre.
In una sonnacchiosa controra domenicale Rita Rusic, attrice, ex moglie di Vittorio Cecchi Gori, milf rampante, irrompe postando sul suo profilo Instagram un ritratto. Figura intera. Lo sfondo minimalista è la parete del bagno. Costume nero decorato da sottilissime strisce di stoffa che la coprono appena. Svelare e velare, come scrisse il filosofo Giorgio Agamben nel suo saggio Nudità (Nottetempo). I commenti entusiasti ripetono più volte: «Divina».
La stessa parola che usò Gabriele d’Annunzio per definire la Marchesa Luisa Casati, musa e amante. La scandalosa femme fatale si fece immortalare da Giovanni Boldini, con un sontuoso abito nero, gli occhi bistrati, lo sguardo rapace e l’erotismo di un braccio dalla pelle bianchissima lasciato scoperto. Diceva: «Voglio essere un’opera d’arte vivente». Posò per oltre 200 ritratti. Probabilmente la stessa cosa che spinge Rusic a inondare i social con i suoi scatti. L’autopromozione è una prerogativa dei nostri tempi narcisistici, malati di voyeurismo, dove ogni giorno vengono condivisi più di 93 milioni di selfie, mille ogni 10 secondi vengono postati su Instagram. Addirittura si è calcolato che i Millennials ne scatteranno in media nella loro vita 27.500. Tutto è vanità, come dice il Qoèlet, l’antico testo ebraico. Un’epidemia narcisistica, la definiscono gli ultimi studi americani di psicoanalisi. Siamo una società paralizzata in un’eterna crisi adolescenziale e ritrarsi ovunque e in ogni situazione sembra l’unico modo (oltre allo Xanax) per placare la nostra divorante insicurezza. Raffigurarsi pare ciò di cui non si può fare a meno e lo dimostrano anche due grandi eventi in contemporanea. Il primo dal titolo High society è al Rijksmuseum di Amsterdam (fino al 3 giugno). Quattro secoli di ritratti a figura intera, 40 capolavori: Rembrandt, Cranach, Velázquez, van Dyck, Manet, Gainsborough, Munch e anche lo strepitoso dipinto di Boldini della Marchesa Casati.
Fino al Cinquecento era riservato a dio e ai santi, poi divenne, come oggi, autopromozione. I primi a farsi dipingere così furono i grandi monarchi come Carlo V, che si considerava un dio in terra. «Era l’affermazione di uno status, pura propaganda. Queste immagini, mandate in ogni angolo del regno, li mostravano soli e maestosi in tutta la loro potenza», spiega il curatore della mostra Jonathan Bikker. Dipinti costosissimi, pochi erano quelli che riuscivano a permetterseli. L’alta nobiltà li voleva per dimostrare l’importanza delle loro unioni. Così Lucas Cranach il Vecchio ritrae, nel 1514, in vesti opulente, gioielli e armature Enrico il Pio, Duca di Sassonia e la moglie Caterina di Meclemburgo. Paolo Veronese per dare lustro alla casata del conte Iseppo e della contessa Livia da Porto inserisce anche i figli. Ma il capolavoro è la coppia raffigurata da Rembrandt, per la prima volta in mostra dopo il restauro, gli unici che abbia mai dipinto a figura intera (1634). Protagonisti Marten Soolmans e Oopjen Coppit appartenenti alla più ricca borghesia di Amsterdam. Neanche Instagram stories avrebbe saputo tratteggiarli in modo così preciso. Sposati da poco, lui appena ventenne, lei più vecchia e arcigna, il volto tagliente. Sopravvisse al mite marito per oltre 50 anni. Il nero degli abiti e gli immensi colli bianchi ricamati esprimono l’opulenza e l’ascesa dei nouveaux
riches. Le scarpe dello sposo dalla fibbia stravagante sembrano una creazione di Manolo Blahnik.
In mostra ci sono anche due quadri «speciali», belli e moderni, che si potrebbero definire égoportrait seguendo l’uso canadese che così chiama i selfie sot-
tolineando l’esasperata valorizzazione del sé. Il primo immorta Jane Fleming, fra le più belle ereditiere inglesi della sua epoca: Joshua Reynold nel 1778 la eterna avvolta nei drappeggi di un abito leggero che lascia intravedere la figura sensuale. Sposata allo squattrinato Conte di Harrington, ebbe dieci figli e conobbe le fatiche della vita domestica, ma la sua bellezza resterà per sempre. Il secondo ritrae l’affascinante Dr.Samuel-Jean Pozzi, celebre ginecologo francese, famoso seduttore soprattutto delle sue pazienti. Il dipinto porta la firma di John Singer Sargent che lo esegue nel 1881 nella casa di Los Angeles: lunghe dita sottili e vestaglia rossa da cui spunta una pantofola ricamata. Il trionfo della vanità, altro che i sabot afro che Gianluca Vacchi sfoggia su Instagram ogni estate. Dilettanti. Pozzi rinominato dalla sua celebre amante Sarah Bernhardt «Dr. Dieu» per l’erotismo sfrenato, si celebra e si consegna all’immortalità. Tutto quello che vorremmo anche noi, divoratori di scatti. «È la rincorsa al successo personale. L’esibizione del sé così accentuata per rafforzare il proprio valore è un bisogno contemporaneo», spiega Luciano Di Gregorio, psicoterapeuta e autore del saggio
La società dei selfie ( Franco Angeli). «Nei grandi ritratti c’era l’effettiva notorietà del pittore e del soggetto. Oggi siamo tutti molto insignificanti. E abbiamo bisogno dei social per rafforzarci. Per combattere crisi identitarie profonde». Un’autopromozione spesso insufficiente e deludente.
Soprattutto se ci voltiamo indietro. Ed è questo che si propone di fare l’altra mostra che mette a confronto passato e presente. Eco e Narciso. Ritratto e autoritratto nelle collezioni del Maxxi e delle Gallerie
nazionali Barberini Corsini inaugurerà a Roma il 18 maggio (fino al 28 ottobre) a Palazzo Barberini. Per la prima volta dopo 70 anni di attesa, verranno restituiti al museo gli spazi che furono del Circolo ufficiali delle Forze armate. Undici sale, 700 metri quadri di percorso espositivo affacciati sui meravigliosi giardini. «Per inaugurare la nuova ala del
Palazzo, che ospiterà la collezione del Settecento, abbiamo pensato a un evento speciale», racconta Flaminia Gennari Santori, direttore delle Gallerie nazionali e curatore della mostra con Bartolomeo Pietromarchi, direttore del MAXXI arte. «Volevamo dare una lettura diversa. Non solo cronologica, ma evocativa ed evocata. In un dialogo con le opere di arte contemporanea. Si scoprono così confronti inaspettati come quello tra l’eroina ribelle Beatrice Cenci, attribuito a Guido Reni, e il video dell’artista iraniana Shirin Neshat sull’emancipazione della donna oggi».
Un percorso che vedrà confrontarsi capolavori provenienti dalle collezioni dei due musei: La Fornarina di Raffaello, La
Maddalena di Piero di Cosimo, il busto di Urbano VIII di Gian Lorenzo Bernini e poi Giulio Paolini, Kiki Smith, Richard Serra, Yan Pei-Ming.
Spiega il curatore Pietromarchi: «Il mito di Eco e Narciso riporta alla dualità, all’immagine riflessa nello specchio. Si ragiona da prospettive nuove per capire cosa ha significato l’autorappresentazione nella storia dell’arte». Non sembra poi così lontano il mondo dei selfie. Continua: «Ormai fanno parte di un mutamento epocale. Non è più possibile pensarci senza strumenti tecnologici. I selfie hanno un ruolo centrale estremamente profondo. Non devono essere liquidati solo come una moda. Non passerà».
Il Narciso di Caravaggio, quadro guida dell’esposizione, è per il direttore delle Gallerie nazionali «l’emblema dell’uomo che si perde dentro di sé, fino a morire. Se vogliamo avvicinarlo alla disperata ossessione di autorappresentarsi di oggi, possiamo dire che è l’immagine perfetta del nostro narcisismo malato». Sotto la volta affrescata da Pietro da Cortona, allegoria del potere della famiglia Barberini, l’opera di Luigi Ontani Le ore mostra l’artista nell’arco di una giornata. Dialogo sul tempo che passa e tutto dissolve. E allora cosa resterà? L’eternità per le opere di Palazzo Barberini, mentre per lo psicologo Di Gregorio dei nostri milioni di selfie «rimarrà solo una delusione amara. La percezione di essere stati sfruttati dalle multinazionali. Forse non era meglio sedersi a tavola a parlare, piuttosto che postare continuamente foto?». Nel dubbio, scattate, scattate, qualcosa forse resterà.