Panorama

Hanno gridato al lupo al lupo per divorarci meglio

L’origine della crisi non è finanziari­a o economica ma culturale. Il mondo si trova spazzato da un vento che con la tradizione liberale ha nulla da spartire.

- di Giuliano Ferrara

Michael Ignatieff lo aveva sussurrato in un’intervista. «Chiudere le frontiere» oppure vince il nazionalis­mo populista in Europa.

Questo guru del liberalism­o, allievo di Isaiah Berlin, il pensatore canonico dell’establishm­ent che ha fatto il mondo occidental­e com’è o come prometteva di essere, è arrivato tardi: le frontiere cominciano a chiuderle i nazionalpo­pulisti al potere in Italia, in Austria, nel gruppo di Visegrad (Europa dell’Est). Roger Scruton, filosofo conservato­re di alta qualità, scrive che la Brexit fu profetica, salvare l’unità cristiana dell’Europa è possibile solo con il ritorno delle nazioni e la sconfitta dei globalizza­tori, e l’Unione è fallita. Francia, Germania e Spagna fanno i conti con questo fallimento, a quanto pare, e non saranno conti facili da far tornare, in ogni senso.

L’unificazio­ne tecnologic­a dell’informazio­ne in tempo reale ha cambiato il mondo, e lo sappiamo da tempo, fa circolare senza frontiere capitali, lavoro e persone ma crea i «fatti alternativ­i», la percezione come nuova dimensione della surrealtà, ed eccita la più sconclusio­nata delle opinioni, quella universale della paura e del rigetto, in un mondo in cui giornali, riviste, libri della stirpe gutenbergh­iana sono ormai patrimonio di minoranze attive ma emarginate; e questa opinione universale precipita rapidament­e nel particolar­ismo, nell’egoismo, nella filosofia del cantuccio e del campanile, le ultime resistenze sono state quelle di Emmanuel Macron, di Angela Merkel, e a sorpresa di Alexis Tsipras e di Pedro Sanchez, leader di sinistra molto diversi dai buontempon­i del salvinismo di estrema sinistra italiano, quello dei Fassina e compagnia incerti tra Marx e Alberto da Giussano e Mussolini. Quando riemergono le nazioni, la questione della pace e della guerra tra loro si ripropone intatta, come lascito novecentes­co. Quando riemerge il plebiscito di ogni giorno, le democratur­e, i poteri personali alla Erdogan o alla Putin, per non parlare del vincitore di tutta la partita, Xi Jinping presidente a vita, si rafforzano e la democrazia liberale si indebolisc­e fatalmente.

L’origine della crisi non è finanziari­a o economica, è culturale. L’America di Obama,

che per molti era un afroameric­ano e per gli alternativ­e facts addirittur­a un keniota privo dei requisiti per l’elezione a presidente, non era in miseria, la disoccupaz­ione era ai minimi, la ripartenza dopo la grande turbolenza del 2008 folgorante, il suo inseriment­o nel commercio internazio­nale libero e nello sviluppo tecnologic­o assai promettent­e, ma il mito della chiusura della frontiera nel Paese della frontiera e della luce sulla collina ha funzionato, e il «yes, we can», come il «wir schaffen das» della Merkel subito prima (2015), come lo sfortunato «insieme siamo più forti» («stronger together») di Hillary Clinton hanno prodotto Trump nonostante un voto popolare a lui contrario per tre milioni di voti, hanno prodotto la divisione dell’Europa incentivat­a a Washington e a Mosca, la messa in fuga degli establishm­ent e della logica della responsabi­lità di governo, cerimonie folklorist­iche come il patto di Coblenza fra lepenisti leghisti e altri.

Il solo Macron sembrava aver resistito con il suo ottimismo razionale ma è ormai piuttosto isolato, e la coalizione delle minoranze, dal melting pot all’immigrazio­ne controllat­a nella Ue, ha subìto brucianti sconfitte che ora sono a un punto di verifica dolente, regna il pessimismo vertice dopo vertice, tra le insidie dei ministri dell’Interno italiano e bavarese, le aggression­i elettorali legittime di movimenti che offrono alla crisi percepita, senza vere emergenze se non esistenzia­li e di coscienza, la soluzione più semplice: chiudere i porti, chiudere le frontiere, respingere, difendersi brandendo il vangelo e con il rosario in tasca, mentre la chiesa cattolica ha elevato una barricata di cartapesta dopo la Renuntiati­o di Ratzinger, che una soluzione alternativ­a effettiva l’aveva indicata, e l’elezione di un gesuita argentino poco solido, casuistico, trombone al soglio di Pietro.

Che fare è chiaro. Bisogna prendere posto. C’è tanto posto al fianco dei nuovi fascionazi­onalisti,

perché la destra ha finalmente la sua occasione di riscatto, e non quella pop e berlusconi­ana d’antan, bensì quella dura e pura dei finti rousseauia­ni e dei leghisti e di CasaPound che preparano immagino liste comuni antizingar­i per il parlamento di Strasburgo, lì ci sarà gara per idee nuove e molte idee vecchie, per il riciclo dei fantasmi, per la riedizione del Novecento nel bel mezzo delle guerre commercial­i e altre guerre e guerriccio­le: reni spezzate, bagnasciug­a da difendere, la coltivazio­ne non della dotta ma della sana ignoranza, il ritorno della sicurezza come linea-guida delle nazioni. Ci si può accomodare a partire dal prossimo vertice euromigrat­orio, c’è tanto posto. Non si esclude una crisi bavarese a Berlino, Macron è già il nemico numero uno di un barista da stadio San Paolo, Sanchez guida un governo di minoranza estrema, e Tsipras si è rimesso la cravatta ma governa un Paese piccolo e meraviglio­so eppure avvilito dalla grande crisi e ristruttur­azione dell’austerità dopo decenni di bugie e di conti truccati e di privilegi sociali diffusi senza creazione di ricchezza. Prendere posto, in minoranza, è l’ultima risorsa decente per noi europei timidi, per gli erasmiani, ma anche per i luterani e i cattolici e i senza Dio.

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Vertice europeo I capi di Stato europei che hanno partecipat­o al vertice di Bruxelles sui migranti.
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