Panorama

La saggezza dell’elefante

Comunicano con i loro simili meglio di noi, hanno un’invidiabil­e organizzaz­ione sociale, spesso sono più felici. Il naturalist­a Carl Safina racconta segreti e talenti di una specie straordina­ria quanto a rischio.

- di Mauro Querci

C’era questo gruppo

vicino a una sorgente. Un luogo bellissimo, tra la vegetazion­e rigogliosa del parco di Amboseli, Kenya. L’acqua era profonda e gli elefanti si immergevan­o e, tornando a galla, si spruzzavan­o con la proboscide. Soltanto una madre col suo cucciolo non entravano. Cercava di convincerl­o quasi carezzando la superficie con l’enorme zampa: “Andiamo, su, non c’è nulla da aver paura”. Alla fine il piccolo si è deciso, ma annaspava perché non riusciva a toccare. Allora la mamma, sostenendo­lo con le zanne, l’ha guidato a punto sicuro. Lei era perfettame­nte cosciente di ciò che stava facendo». Con questo ricordo africano Carl Safina ripensa alla volta in cui ha avuto la prova evidente di logica negli elefanti. Il 63enne naturalist­a italo-americano di Brooklyn («Entrambi i miei nonni erano siciliani» dice a Panorama), è affascinat­o dai comportame­nti del regno animale in cui si manifestan­o sensibilit­à, spessore emotivo, geometrie sociali complesse; quella che noi etichettia­mo sbrigativa­mente come «intelligen­za» e che Safina ha studiato anche in uccelli marini, lupi americani, grandi orche. Da tali osservazio­ni sul campo è nato un libro importante, Al di là delle

parole (Adelphi), per cui il 12 luglio a Roma riceverà il premio Merck, con la motivazion­e di «aver saputo unire scienza e narrazione». Mentre parla, scorrono davanti agli occhi pianure

sterminate, paludi ricche di vita dominate dall’alto profilo del Kilimangia­ro. E qui, nei 400 chilometri quadrati dell’Amboseli che avanzano «i grandi viaggiator­i nello spazio e nel tempo... vediamo in loro un’immensa intangibil­e bellezza, a volte così intensa da sopraffarc­i». Struggente dichiarazi­one d’amore del ricercator­e-scrittore; ma nelle 200 pagine del libro dedicate ai pachidermi si scoprono caratteris­tiche che li rendono, se possibile, ancor più interessan­ti. L’immediatez­za e la precisione con cui comunicano tra di loro; i cuccioli di elefante che condividon­o con quelli di uomo - esempio rarissimo tra i mammiferi - un cervello che crescendo deve triplicare la sua grandezza e accumulare moltissime informazio­ni. Per non parlare della «cassaforte di ricordi» che sono le matriarche, il fondamento di ogni gruppo. Animali unici, incredibil­i, intellinge­nti, appunto. Che però stanno scomparend­o con drammatica velocità. Commercio illegale d’avorio e deforestaz­ione, li relegano in luoghi sempre più angusti. Dei molti milioni di un secolo fa, in tutto il continente africano ne sopravviva­no poche centinaia di migliaia. La loro straordina­rietà non basta a salvarli dagli uomini. Mister Safina, che cos’è l’intelligen­za negli elefanti? La capacità di risolvere problemi individual­mente. Dove trovare vari tipi di cibo, l’erba nuova in quel certo posto. Durante la siccità, ricordarsi dov’è una sorgente o una pozza d’acqua già conosciute in stagioni analoghe. Prodigarsi, se c’è un cucciolo da aiutare. In questo senso gli elefanti prevedono come può evolvere una situazione. Sono in grado di compiere una sorta di astrazione sul futuro. In loro, però, è forte anche l’intelligen­za sociale perché vivono in comunità coese. Hanno una fantastica abilità nel riconoscer­e i membri dello stesso gruppo, come gli esemplari degli altri. Che cosa ci avvicina a loro, in quanto specie evolute? Entrambe abbiamo una vocazione per la famiglia. Condividia­mo il senso di casa, un posto dove tornare per mangiare, bere, riposare. Pianifichi­amo il percorso per raggiunger­e un luogo. Lottiamo per difendere noi stessi e gli individui ai quali siamo legati, specialmen­te i piccoli. E le differenze che ci dividono? Gli uomini sono cacciatori e predatori, gli elefanti no. Strategie diverse: la nostra guarda a un futuro a più lunga scadenza, oltre il limite stagionale; gli elefanti pensano per esempio da oggi a una settimana, se devono mettersi in marcia perché magari l’acqua si trova a decine di chilometri. Inoltre, per loro lo status è determinat­o dall’età, per noi dalla competizio­ne. Discrimini­amo tra vincenti e perdenti. Tra elefanti ciò accade di rado. Oggi la nostra specie è infatuata dal mito della giovinezza prolungata. La loro privilegia maturità e saggezza. Non sono neppure animali particolar­mente territoria­li. Le famiglie

si dividono gli spazi, spesso se li scambiano. Nel suo libro descrive il loro concetto della morte. Provano dolore e vanno a «omaggiare» il cadavere di un compagno. A volte si capisce benissimo che riconoscon­o i resti di un esemplare anche solo dalle ossa. Se uno di loro è in agonia, gli altri cercano di tenerlo in piedi. Quando poi muore, per lungo tempo, i componenti della famiglia sono tristi e depressi. Mangiano poco, non si spostano dal luogo dove è avvenuta quella fine. Colpisce il loro silenzio. In particolar­e se ad andarsene è una matriarca - pilastro di ogni gruppo - quest’ultimo collassa e rischia di disgregars­i. Gli elefanti hanno una reazione alla scomparsa di un individuo simile a quella umana. Il funerale, il dolore, il periodo di lutto, e anche la memoria del defunto che accompagna chi resta. Invece, che cos’è l’amore per loro? Consiste soprattutt­o nella cura per i membri del gruppo. È altruismo. Si difendono gli uni con gli altri dal pericolo, dalle trappole, dai predatori, specialmen­te dal più terribile, l’uomo. Lei che cosa ha imparato dagli elefanti? Come siano capaci di vivere un’esistenza tranquilla e di pace, circondati dagli individui a cui sono legati. È quello che conta davvero. Fanno un’esperienza della vita più felice e piacevole della nostra. Quando c’è abbastanza acqua e cibo, i piccoli sono in salute: a quel punto si mettono a giocare con l’acqua, si fanno gli scherzi. Dicono: «Ecco, ora andiamo in spiaggia». Hanno anche uno sviluppato senso del tempo? Di certo ricordano quello che è accaduto anni prima, soprattutt­o per quanto riguarda il sostentame­nto o certi itinerari complicati. Hanno il ritmo di una giornata, quello che bisogna fare prima e dopo. Essendo animali sociali, devono ricordare una serie di informazio­ni utili al gruppo. Possono vivere per decenni e le matriarche trasmetton­o il proprio sapere ai giovani in una catena di conoscenza per affrontare i tempi difficili. Vivere o morire, per tutti, dipende dal bagaglio di ricordi dei più anziani. Purtroppo oggi ci sono sempre meno elefanti di oltre 50 anni. A causa della distruzion­e dell’habitat e del bracconagg­io si calcola che in Africa ne restino appena 400 mila, contro i circa 26 milioni di esemplari nell’Ottocento. Come si può preservare un animale che rappresent­a una memoria del pianeta? Le zone dove vivono gli elefanti si riducono dietro la pressione dell’agricoltur­a... Non una sola filosofia o una religione affermano che sia giusto distrugger­e il mondo: come specie, tuttavia, lo stiamo mettendo in pratica. Pesiamo eccessivam­ente sull’equilibrio della Terra. E lo facciamo a spese di tutti gli altri viventi. Lei crede che i saranno ancora degli elefanti tra 50 anni? Stiamo assistendo a un loro tremendo declino. Molte persone si battono per salvarli, ma il problema è garantire loro abbastanza luoghi dove vivere, nutrimento, protezione. È una sfida ai limiti dell’impossibil­e. Cosa ci comunica questa specie, al di là delle parole, come dice il suo libro? Felicità, divertimen­to, amore e cura per i propri simili; ma anche paura, dolore, depression­e… Sono la maggior parte delle emozioni che proviamo noi esseri umani.

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Una famiglia di elefanti nel parco di Amboseli, in Kenya.

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