Fuga dal Venezuela dove la gente muore di fame
Questo è il ponte della disperazione. Attraversato, ogni giorno, da 20 mila venezuelani che scappano da miseria e carestia. Quello che vent’anni anni fa era il Paese più ricco del continente è diventato un inferno dove ormai si cerca cibo nei bidoni dell’
Una catastrofe umanitaria dalle dimensioni gigantesche, un dramma che negli ultimi quattro anni ha già causato molti più morti dei 34.361 affogati nel Mediterraneo negli ultimi 25; ma che affascina poco o nulla i media. Quasi non esistessero gli oltre 4 milioni di profughi, rifugiati o fuggiaschi, che dal Venezuela sono approdati in Colombia (oltre un milione), negli Stati Uniti (500 mila) e in una quarantina di altri Paesi. Una cifra pari al 15 per cento della popolazione di quello che sino agli anni Novanta era considerato lo Stato più ricco dell’America latina.
Invece quei rifugiati esistono, eccome. Seppur in mezzo a una generale indifferenza, c’è chi si è già mosso per aiutarli, a cominciare dai Paesi vicini, letteralmente invasi dai venezielani disperati in fuga. In primis la Colombia, che ha approntato una serie di rifugi, come il Divina Providencia di Cucuta, seguito a stretto giro dal Brasile, dove il 27 giugno il vicepresidente Usa, Mike Pence, ha visitato a Manaus la Casa d’Accoglienza Santa Catarina, altro punto di raccolta in mezzo all’Amazzonia dei disperati in fuga da Caracas.
«Ormai chiunque può se ne va da quel paradiso trasformato in un inferno da politici criminali» si sfoga al telefono da Barcellona Stefano Cafiero, 69 anni. Italianissimo per gusti e passaporto, ma da oltre mezzo secolo in Venezuela, Cafiero più di un anno fa è stato costretto ad andarsene in Spagna, dove ha raggiunto la figlia che l’aveva preceduto di qualche mese per sfuggire alla dittatura chavista di Nicolás Maduro.
Prima se ne vanno i giovani, spesso laureati, che poi, ottenuto uno status di permanenza regolare, o visto di lavoro o asilo, invitano fratelli, genitori e altri familiari a raggiungerli. Nel frattempo, sono gli emigrati a consentire la sopravvivenza a chi rimane, inviando loro l’equivalente di un centinaio di euro al mese. «Un’inezia, per chi è disposto a lavorare in Europa o negli Stati Uniti anche solo come autista di Uber ( attività che molti fuggiaschi venezuelani oggi svolgono in Florida, ndr) per 10 ore al giorno, sei giorni su sette» spiega a Panorama Adelina Valente, 40 anni, laureata in marketing e rifugiatasi a Madrid con marito e figlia di tre anni. Ma a Maracaibo ha lasciato la madre vedova, che senza il suo aiuto non potrebbe sfamarsi.
È la dinamica osservata un po’ ovunque in quest’esodo biblico che entro fine anno porterà il Venezuela a superare le uniche tre nazioni che al momento la precedono nelle richieste d’asilo: Afghanistan (124.900 domande), Siria (117.100) e Iraq (113.500). Secondo l’alto rappresentante per i rifugiati dell’Onu, il diplomatico milanese Filippo Grandi, «nel 2018 i numeri del Venezuela continueranno ad aumentare» più di quanto non accadrà nelle altre tre nazioni (tutte martoriate da feroci guerre, a differenza di quanto accade a Caracas). Nella capitale del Paese sudamericano, tuttavia, il nemico è «la complessa situazione socioeconomica e politica» con le iniziative di Maduro che hanno portato alla mancanza di cibo per la stragrande maggioranza della popolazione.
Secondo l’ultimo Rapporto mondiale sulla migrazione forzata, pubblicato lo scorso 20 giugno in occasione della Giornata del rifugiato dall’Acnur (l’Agenzia
Onu per i rifugiati), solo nel 2017 hanno chiesto asilo politico 111.600 venezuelani. Ma, soprattutto, «la cifra di chi chiede asilo, che comprende solo una minima parte, neanche un decimo dei miei concittadini in fuga, è la dimostrazione della guerra, aperta anche se mai dichiarata, da parte di Maduro contro il suo stesso popolo» racconta Roger, un altro figlio della diaspora che dall’ottobre scorso ha trovato rifugio in Italia.
Chi se ne va lo fa perché costretto
dalla crisi economica e per evitare di morire di fame. Oggi un dollaro è arrivato a valere sul mercato nero (l’unico che conta davvero) oltre 3 milioni di bolivares. Il che significa che, con il suo stipendio da 10 milioni di bolivares, un ingegnere che lavora in Pdvsa, la compagnia statale del petrolio, riesce a stento ad acquistare un uovo al giorno. Oppure mezzo chilo di tonno al mese, perché con un’inflazione che ha ormai superato il 30 mila per cento (la più alta al mondo) e che il Fmi prevede superi il 300 mila per cento entro fine 2018, tutti i prezzi sono ultramilionari, compresi quelli di un caffè o di un lecca-lecca.
Chi se ne va da Caracas, stando alle richieste di asilo del 2017 (fonte Acnur), nel 30 per cento dei casi sceglie il Perú e, con percentuale analoga, gli Stati Uniti: quasi tutti in Florida, dove alcune città, per esempio Doral, si sono trasformate in enclave venezuelane. Il 15 per cento chiede asilo nel confinante Brasile, mentre un altro 10 per cento punta alla Spagna. Le domande di asilo, tuttavia, non corrispondono ai Paesi dove maggiore è il flusso migratorio dei venezuelani, perché la Colombia, la nazione che sta assorbendo più disperati da Caracas, o il Cile hanno approntato altre forme, assai più rapide dell’asilo, per legalizzarne la presenza.
«Ogni giorno 20 mila venezuelani attraversano il ponte di Cucuta alla ricerca di cibo, vendendo persino i loro capelli in cambio di qualche caloria» ha detto nei giorni scorsi il neopresidente colombiano Iván Duque. «Noi abbiamo in comune oltre 2 mila chilometri di frontiera con la dittatura di Maduro. Oltre a dimostrarci solidali con i fratelli in fuga, faremo di tutto perché siano al più presto indette elezioni democratiche a Caracas, affinché con la libertà il popolo torni anche a potersi nutrire».
Ma anche in Italia c’è chi pensa ai venezuelani alla fame. È il caso di Anna Pagella, già direttrice ad Alessandria di un ricovero per anziani e adesso presidente di Social Domus, centro d’accoglienza che accoglie rifugiati ucraini, siriani e somali. Abituata a guardare avanti, e dopo aver letto il reportage di Panorama dell’agosto scorso sulle centinaia di migliaia d’italiani in difficoltà a Caracas e dintorni, Pagella ha messo in cantiere un progetto per proporre alle nostre autorità di cominciare ad accogliere profughi «anche italiani, che sono in fuga da un Venezuela sempre più avviato verso la carestia e il disastro».
Gli unici a non potersene andare dal
Venezuela (dove ormai il 90 per cento della popolazione fa la fila anche solo per rovistare nell’immondizia alla ricerca di qualche avanzo) sono i 50 mila malati di cancro dell’ospedale Padre Machado di Caracas. Storicamente era il centro d’eccellenza per le terapie oncologiche in Venezuela. Poi, nel 2007, Chávez lo espropriò. Ora l’ospedale è statale e la gestione è comunista: da tre mesi nessuno dei pazienti ha più avuto accesso a una chemioterapia.