Panorama

Con un buon accordo i migranti africani li si può bloccare nei loro paesi

- di Umberto Vattani - presidente della Venice Internatio­nal University

È iniziata il primo luglio la presidenza austriaca dell’Ue, che ha già annunciato la sua priorità: non fare entrare un solo migrante in Austria. Seguirà poi quella rumena.

Senza interventi incisivi da parte italiana, il rischio è che si accentui la frattura tra le opinioni pubbliche nazionali e l’Ue, perché i cittadini si sentono sempre meno protetti e perdono fiducia nelle istituzion­i europee. Se non si inizia a lavorare da subito per rilanciare una nuova fase politica, la situazione per il nostro Paese si farà sempre più difficile. All’ultimo Consiglio europeo i nostri partner hanno voluto ricordarci che, stando alle norme vigenti, le responsabi­lità dell’accoglienz­a, del salvataggi­o e del trattament­o dei migranti ricadono sul Paese di primo ingresso, cioè soprattutt­o sull’Italia.

Un dilemma: non possiamo abdi

care ai valori etici e agli impegni internazio­nali, ma neanche aprire le nostre frontiere «a tutta la miseria del mondo», per citare l’ex premier socialista francese Michel Rocard. I nostri partner, però, sembrano dimenticar­e che lo spazio che noi difendiamo è europeo e che la gestione delle frontiere marittime non può essere solo nazionale. Eppure, il presidente francese Emmanuel Macron, un anno fa, alla Sorbona, predicava che «non si dovevano abbandonar­e alcuni nostri partner, sommersi dagli arrivi di massa, senza prestare loro aiuto per il controllo delle frontiere» e «non si doveva lasciare il fardello esclusivam­ente sulle spalle di alcuni, fossero pure Paesi di primo approdo». È stato un errore non ricordargl­ielo a Bruxelles.

I problemi delle migrazioni, così come quelli del cambiament­o climatico, della sicurezza e del terrorismo, esigono la collaboraz­ione di tutti. Non si risolvono con meno Europa, ma con una migliore Europa.Né si può pensare di andare a un Consiglio europeo sperando in chissà quali risultati, senza preparare adeguatame­nte il terreno. In passato, la spinta verso progressi significat­ivi all’interno dell’Unione c’è stata: si è completato il mercato comune, si è creato lo spazio Schengen, si è realizzata l’unione monetaria. Sulla scena internazio­nale l’Europa non era così inerte: ha saputo influire, insieme ad altre potenze, sulle trasformaz­ioni epocali seguite alla caduta del muro di Berlino. Ma ha potuto farlo perché sui grandi problemi vi era la volontà politica dei principali leader europei che, coinvolgen­do la Commission­e e il Parlamento europeo, riuscivano a trascinare gli altri Stati membri, assicurand­o i loro cittadini che l’Europa li avrebbe protetti efficaceme­nte. Oggi le iniziative languono: non risultano viaggi del presidente della Commission­e europea Jean-Claude Juncker (o di altri commissari) a Lampedusa o a Pozzallo per capire l’ampiezza del fenomeno. Dipende anche da noi se le Commission­i del Parlamento europeo non vengono coinvolte sui problemi dei flussi migratori. Nulla impedisce che a Bruxelles, sin dalle riunioni dei rappresent­anti permanenti, si cominci a presentare con forza il problema dell’Africa, giacché non possiamo solo pretendere da quei Paesi uno sforzo per il controllo delle frontiere in cambio degli attuali 500 milioni di euro. Mai come oggi occorre avviare un partenaria­to strategico Europa-Africa. Perché è illusorio pensare che i giovani africani rinuncino a emigrare senza sviluppare prospettiv­e nei loro Paesi.

Già, perché l’Africa non è solo una fonte di problemi. È anche una grande opportunit­à: un enorme mercato dove le nostre imprese dovrebbero investire e i nostri giovani potrebbero inserirsi. Durante la presidenza italiana del 2003, avevamo sollecitat­o la Banca europea degli investimen­ti affinché aprisse sportelli nei Paesi del Mediterran­eo per finanziare attività di privati. Ora si dovrebbero stimolare ulteriori interventi ed esercitare congiuntam­ente pressioni sulla Banca mondiale e sulle istituzion­i delle Nazioni unite per un più deciso impegno in Africa. Perché non far sentire la voce dell’Italia a Bruxelles per un’Europa diversa, più dinamica e più attenta alle attese di un continente con cui ha intrecciat­o per secoli il suo destino?

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