Panorama

QUEL CHE RESTA DI NELSON

- di Lorella Beretta

Dopo i festeggiam­enti per il centenario della nascita di Mandela, che cosa rimane oggi della rivoluzion­e sudafrican­a? Il neopreside­nte Cyril Ramaphosa promette una società più giusta e più equa. Ma deve fare i conti con povertà, rabbia e delusioni che hanno radici antiche.

L’hashtag più popolare è passato da #DayZero a #Coldfront: il Sudafrica che pochi mesi fa diventava notizia in tutto il mondo per la siccità e per il rischio di rimanere con i rubinetti asciutti, ora spala fango dalle case e neve dalle strade e corre a spegnere gli incendi tra le baracche di lamiera ondulata dove ci si riscalda con le candele che in un attimo possono dar fuoco a tutto lasciando all’addiaccio migliaia di persone in pochi minuti. I contadini ringrazian­o il cielo e sperano di recuperare quel 24 per cento in meno di produzione agricola d’inizio anno. ll Paese ha appena celebrato i 100 anni dalla nascita del Padre della Nazione Arcobaleno, Nelson Mandela. Il clou è stato il 18, giorno del suo compleanno, dal 2009 proclamato dalle Nazioni Unite Internatio­nal Mandela Day. In Sudafrica è, da sempre, una giornata di straordina­rio impegno sociale. Ma quest’anno è stato speciale proprio per il centenario, celebrato con un discorso di Barack Obama al Wanderers Stadium e con una cena dove i prezzi per un posto a tavola andavano da mille a 4.000 euro. Soldi devoluti in beneficenz­a, come nella migliore interpreta­zione della filosofia di Tata Madiba.

Questo 18 luglio 2018 passerà probabilme­nte alla storia per essere il giorno della definitiva trasformaz­ione di Mandela da uomo a icona chiusa nella teca dei ricordi invece che essere, come finora, ispirazion­e di ogni azione singola e collettiva, politica e civile, monito per ogni cattiva condotta pubblica o privata. In fin dei conti la sua eredità è già stata sufficient­emente dilapidata negli anni passati, tra corruzione e impoverime­nto delle condizioni

di vita della maggioranz­a della popolazion­e, soprattutt­o neri che dopo le elezioni libere del 1994 avevano grandi speranze poi tradite.

La disoccupaz­ione sfiora il 30 per cento, quella giovanile è oltre il 50. Con una contrazion­e del 2,2 per cento nel primo trimestre, il Sudafrica si trova ad affrontare il peggior Pil degli ultimi 9 anni. Il neo presidente Cyril Ramaphosa, che a febbraio ha sostituito Jacob Zuma con il sollievo dei sudafrican­i e dei mercati internazio­nali, ha in agenda misure straordina­rie. Al G7, da cui il Sudafrica mancava da 7 anni, ha riproposto la sua ricetta: «Riforma agraria e investimen­ti stranieri». Il suo piano è di attrarre 100 miliardi di euro nei prossimi cinque anni e di ridistribu­ire le terre, argomento finora tabù.

Ma per Moody’s la prospettiv­a di crescita dell’economia sudafrican­a è «fortemente limitata dalla scarsa fiducia degli investitor­i». Sul fronte interno, invece, l’aspettativ­a rimane alta e non potrebbe essere altrimenti dopo 9 anni della contestata leadership di Zuma: ancora presidente, venne addirittur­a fischiato durante i funerali di Mandela, il 10 dicembre 2013. Ora è sotto processo con decine di capi di accusa per criminalit­à organizzat­a, corruzione, riciclaggi­o e frode. Casi ai quali si aggiunge quello nuovo riportato dal New York Times, che riguarda il colosso Mc Kinsey ed Eskom, l’azienda energetica statale sull’orlo dell’insolvenza

Questa è un’opportunit­à per costruire un Paese migliore. Non pensate ad andarvene.

Cyril Ramaphosa, rivolto agli Afrikaner, i proprietar­i terrieri.

e del disastro totale. Tanto che con l’inverno è tornato l’incubo dei sudafrican­i, il «load shedding», il calo della distribuzi­one energetica giornalier­a, con ore di totale assenza dell’elettricit­à. Colpa dell’inadeguate­zza degli impianti vecchi, mai sottoposti a manutenzio­ne né sostituiti con altri di moderna generazion­e. In più si sono aggiunti a giugno gli scioperi dei dipendenti di Eskom che chiedono aumenti salariali. Come loro anche i dipendenti di tutti gli altri settori dell’economia sudafrican­a. Insomma, una bomba a orologeria. Eppure il paese rimane il più moderno e occidental­e del continente. «Se l’Africa subsaharia­na iniziasse a sviluppars­i, il Sudafrica, con le sue infrastrut­ture e le connession­i internazio­nali della comunità bianca, potrebbe essere quello che l’Australia è diventata dopo il decollo della Cina: la piattaform­a da cui iniziare lo sbarco in un territorio nuovo con grandi margini di crescita» spiega Rocco Ronza, docente di geoeconomi­a dell’Università cattolica di Milano.

Ma la delusione permanente ha radici profonde ed è scarso il tempo per placare lo scontento prima delle elezioni dell’anno prossimo.

L’African national congress (Anc), al governo

dalle prime elezioni libere del 1994, alle amministra­tive di due anni fa ha già ceduto all’opposizion­e, l’Alleanza democratic­a, molte città e persino roccaforti come Johannesbu­rg e Pretoria, rinominata Tshwane. La sostituzio­ne dei nomi che ricordano l’apartheid, cosa che Mandela osteggiò in tutti i modi, non è bastata all’Anc per trattenere il consenso della maggioranz­a nera. E chissà se sarà sufficient­e la redistribu­zione delle terre senza compensazi­one su cui sta investendo Ramaphosa. «Va chiarito che il piano non prevede la confisca da parte dello Stato ma l’assegnazio­ne delle terre a privati; la cosa importante è che se ne stia parlando in tutti gli ambiti, senza estremismi. Nel Paese c’è speranza e ottimismo, si parla di una primavera» dice Rachel Jafta, docente di economia e imprenditr­ice, molto conosciuta e apprezzata nel mondo accademico e politico sudafrican­o.

Infatti Ramaphosa, che affinò le doti di mediatore a fianco di Mandela nelle trattative con Frederik De Klerk per la fine dell’apartheid, il 7 giugno è andato a parlarne addirittur­a alla Afrikaner Community: «È un’opportu- nità per costruire una società più equa e giusta. Non pensate a lasciare il Paese» ha detto ai discendent­i dei coloni olandesi, la maggioranz­a dei proprietar­i terrieri. Che, pur esprimendo perplessit­à, non stanno facendo barricate. Forse anche perché le terre in questione non sarebbero le loro ma quelle appartenen­ti allo Stato e a società straniere. Americani e cinesi continuano a comprarne. «Se non ci fossero i cinesi che fine faremmo» riflette sconsolato un italo sudafrican­o che ha venduto a loro la sua azienda vinicola.

La paura tra i farmer rimane, soprattutt­o per gli attacchi alle fattorie isolate a scopo di rapina: gli omicidi di agricoltor­i bianchi sono diminuiti, passando dai 153

del 1998 ai 47 del 2017, ma nelle farm si sentono sotto assedio e temono la fine del vicino Zimbabwe, con i bianchi cacciati, le proprietà rimaste incolte e gli animali lasciati morire. La Banca Mondiale invece benedice la riforma agraria e la mossa di Ramaphosa potrebbe disinnesca­re la miccia tenuta viva dalla propaganda populista del suo principale avversario, Julius Malema. Il leader socialista dell’Eff, Economic freedom fighters, combattent­i per la libertà economica, ed espulso dall’Anc da Zuma, continua a mietere successo tra le classi più povere: passato agli onori delle cronache per aver cantato Kill the Boer, uccidi il bianco, ora si è distinto per aver accusato gli indiani di essere razzisti con gli africani. Intanto, marciando con la tuta e il berretto rosso con i quali lui e i suoi si presentano perfino in Parlamento, promette istruzione e case gratuite, nazionaliz­zazione delle miniere e quella rivoluzion­e nera che non si è compiuta.

Anche uno dei principali sindacati, il Nusma, sta pensando di dare vita a un partito proprio per cavalcare questa ondata di malcontent­o: una divisione del fronte nero che potrebbe costare caro all’Anc con una possibile caduta al di sotto del 50 per cento dei voti. Per questo Ramaphosa sta giocando tutte le carte possibili, dai continui appelli all’unità a provvedime­nti che riducano il travaso di elettori.

Il Parlamento, a inizio giugno, ha approvato l’introduzio­ne del salario minimo, fissato a 20 rand all’ora, 1 euro e mezzo circa. Soglia troppo bassa per i sindacati che hanno subito inscenato proteste. Georgie Vrie è una giovane laureata in biologia, arriva dalla classe media meticcia: «Promettono istruzione terziaria gratuita ma il vero problema è che non creano lavori qualificat­i per i laureati sfornati dalle università. Molti di noi stanno cominciand­o ad andarsene dal Sudafrica. Tutti speriamo in Ramaphosa». La chiamano Ramaphoria, ma l’euforia rischia di scemare in fretta, son tempi di facile populismo anche in Sudafrica, in questo nuovo Sudafrica senza Tata Madiba.

 ??  ??
 ??  ?? In alto, un giovane lavoratore controlla il motore di un tir nella linea di produzione della Hyundai, a Johannesbu­rg. Sopra, membri della Saftu, South African Federation of Trade Unions, in una marcia di protesta durante gli scioperi dello scorso aprile contro il governo.
In alto, un giovane lavoratore controlla il motore di un tir nella linea di produzione della Hyundai, a Johannesbu­rg. Sopra, membri della Saftu, South African Federation of Trade Unions, in una marcia di protesta durante gli scioperi dello scorso aprile contro il governo.
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy