L’arte fa il monaco
Si ispira allo stile di Al Pacino, ama l’etichetta e colleziona capolavori da studioso. Ecco i consigli del penalista Giuseppe Iannaccone.
Se pianse all’arrivo a Milano da bambino, quando vi si trasferì da Bari con la famiglia, ora questa città, «che gli ha dato tanto», Giuseppe Iannaccone l’ama intensamente. E la guarda dalla sua posizione centralissima, piazza San Babila, dove ha un grande studio legale cosparso di centinaia di opere d’arte, come una galleria. Che apre al pubblico, su appuntamento; offrendo anche a giovani artisti, da moderno mecenate, di esporre i lavori tra i famosi contemporanei Elizabeth Peyton, Banksy, Nobuyoshi Araki. Nell’intimo perimetro di casa tiene invece una collezione «emozionale» di opere realizzate attorno agli anni Trenta, su cui aveva investito i primi guadagni, esposte tutte insieme la prima volta nel 2017 al museo della Triennale. «Scipione, Renato Guttuso, Mario Mafai, Renato Birolli: è come se li conoscessi di persona. La loro vicenda racconta una storia che è anche mia». Ora andranno a Londra, meta la prestigiosa Estorick Collection, in mostra dal prossimo 26 settembre: A New Figurative Art 1920-1945: Works from the Giuseppe Iannaccone Collection. Definisce l’arte «stampella dell’anima», luogo ameno in cui riparare nel poco tempo libero che gli lascia la professione di avvocato affermato, pure amata e sognata fin da piccolo («ricordo una mia esposizione a scuola sulla questione meridionale che si trasformò in arringa»). L’ultima volta che è stato sopraffatto dall’emozione di fronte a un’opera? Lo scorso dicembre alla fiera Art Basel di Miami, davanti ai lavori della giovane Toyin Ojih Odutola: i protagonisti dei suoi quadri mostrano una dignità e regalità commoventi, senza pose. Mi precipitai dalla gallerista che disse di avere già una lunga lista
d’attesa. Ma alla fine la spuntai. C’è qualche collezione d’arte privata che non le appartiene ma che moralmente avrebbe potuto essere sua? Quella di Alberto della Ragione, attualmente conservata al Museo Novecento di Firenze. Ce ne sono di più ricche, certo, ma non altrettanto sentite e personali. Nell’intimità mi somiglia. Che consiglio darebbe a un giovane collezionista? Non credo a chi si vanta d’agire d’intuito. Ho coltivato la passione dell’arte leggendo, molte opere che posseggo le ho inseguite dopo averle viste sui libri: ho finito per accumulare una ricca raccolta di volumi introvabili, che cercavo dai rigattieri di città in città. Per me vale la regola: studiare sempre. L’abito fa il monaco? Credo di sì, mio padre mi ha insegnato che il decoro è rispetto. Ancora mi stupiscono i giudici che in tribunale tentano di aggirare l’etichetta, evitando di indossare toga o bavaglino, perché è estate e fa caldo. Non è questione di temperatura, ma d’immagine. È un rito. Quali vezzi in disuso nell’abbigliamento ritiene andrebbero ripristinati? Personalmente non ho mai abbandonato il cappello e ho l’abitudine di portare, in questa stagione, scarpe bicolori in pelle e tela, che mi faccio confezionare da Edward Green. Vederle addosso a Jep Gambardella ne La grande bellezza mi ha entusiasmato. Non rinuncio ai lini e agli abiti chiari anche in città. Se lei fosse il personaggio di un film quali panni vestirebbe? Quelli di Al Pacino ne Il padrino. Devo ammettere che ho molto guardato al suo stile (mentre quello di Gambardella è stato pura coincidenza) e ho cercato a lungo la meravigliosa seta fiammata che indossava in nella scena del ballo in giardino. L’ho trovata, tr infine, in uno storico negozio nel centro di Milano M chiamato Il vecchio drappiere. Il regalo più bello? Me M lo fece mio figlio Tommaso in occasione del sessantesimo s compleanno: la maglia numero 24 di Lorenzo L Insigne, con firma autografa del calciatore che c tengo esposta nel mio ufficio. Il Napoli, dopo l’arte, l’ è una grande passione. Il suo rifugio? Ho una casa sul mare a Corniglia, in Liguria, dove lavoro bene, studio bene. E torno preparato.