La camicia nera chiesta come ultima volontà da mio padre
Me lo sono chiesto prima, me lo sono chiesto dopo: cosa avrebbe detto mio padre? Mi avrebbe incoraggiato o mi avrebbe frenato? Una risposta certa non l’ho trovata, ma forse, conoscendo il suo understatement, me lo avrebbe sconsigliato. «Lascia stare, ti si ritorcerà contro», avrebbe detto. Chissà, forse, invece, sarebbe stato fiero nel vedermi andare avanti lo stesso. Io, comunque, l’ho raccontata così.
«Prima di morire, mio padre ha lasciato un’unica disposizione: essere vestito in camicia nera. Era così che voleva presentarsi al suo funerale e così, il 9 ottobre 2017, in effetti è stato. Mi sono chiesto che senso avesse. Il suggello di un’esistenza, è stata la risposta. Quando l’Italia perse la guerra e il fascismo si dissolse mio padre aveva 11 anni. Era un bambino. Eppure per tutti i settantadue anni che seguirono non smise mai di considerarsi un reduce. Non che l’abbia mai teorizzato, non che ne avesse fatto una retorica. Tanto meno una carriera. Ma si capiva. Mio padre, una vita da stimato giornalista e una solida reputazione di liberale di destra, è morto improvvisamente a 83 anni nella nostra casa di campagna in Toscana. Perso di interesse per una realtà a suo dire decadente e per un mondo nel quale non si riconosceva più, da qualche anno aveva lasciato Roma e si era ritirato lì in sostanziale attesa. Attendeva la morte. Sulla scrivania dello studio, in cima a una pila di carte, la mattina del suo decesso ho trovato una lettera. Comincia così: “Al mio amato figlio Andrea, il declino fisico e una certa caduta di interesse per le cose che mi hanno riempito la vita mi avvertono che il momento di uscire dal film non è lontano”. Poi, il punto: “Mi piace pensare che l’ultima immagine di me sia come la prima: vestito della stessa camicia che ha dato senso ai miei sogni”. Ero arrivato al suo capezzale con un’ora di ritardo rispetto ai funzionari delle pompe funebri: l’avevano vestito con una camicia bianca, ho chiesto gli fosse abbottonata sul petto una camicia nera». Fu questa la prima parte dell’articolo che pubblicai sul Quotidiano nazionale, di cui ero direttore, pochi giorni dopo la sua morte. Fu, per me, l’occasione per ricordare la figura di un padre e soprattutto per ragionare sulla rimozione della guerra civile dal dibattito pubblico ma non dalle coscienze di tanti italiani «insospettabili» come mio padre e sugli effetti che il trauma dell’8 settembre ebbe sul Paese. Uno dopo l’altro, pubblicai una serie di interventi a riguardo: Veneziani, Veltroni, Cardini, Violante, Galli della Loggia, Perfetti, Battista, Martelli, Barbera, Follini, Gervaso, Faeti. Politici, storici e giornalisti di destra, centro e sinistra si sono cimentati sul tema della morte della Patria e l’hanno fatto con rara onestà intellettuale. Ne è risultato un volumetto per me prezioso. Avendo rotto ogni indugio, ho optato per un titolo esplicito: La camicia nera di mio padre.
Credo che questo suo insospettabile reducismo abbia avuto molto a che vedere con lo spirito risorgimentale e il senso dell’onore che lo caratterizzavano. Caricarsi in spalla l’onore nazionale dopo il voltafaccia dell’Armistizio fu per lui un istinto, non un processo logico. È stato lo stesso per me quando ho deciso di trasformare un caso personale in un tema nazionale. Un «bel gesto» che mio padre avrebbe apprezzato. Forse.