Io dico che Francesco può davvero riuscire a dialogare con il mondo islamico
«Vi ringrazio per aver affrontato il tema della fratellanza tra cristiani e musulmani che - come sapete - mi sta molto a cuore. Siete stati audaci e al tempo stesso realisti, esplorando, nella misura del possibile, le luci e le ombre del passato. E vi siete posti anche la domanda sul futuro dell’Europa».
Così scrive Papa Francesco nella lettera-prefazione al libro Noi fratelli che ho appena pubblicato assieme al collega vaticanista Stefano Girotti Zirotti. Ringrazio il Santo Padre per le belle parole ma, se debbo essere sincero, non mi sento un tipo audace: ho cercato solo di andare controcorrente nel mare magnum del pessimismo generale. Mai come ora, infatti, i rapporti tra i due mondi sembrano difficili anche per colpa di quel fanatismo interessato che ha finito per armare certi terroristi. Proprio quando il dialogo è tra sordi, diventa, però, importante ascoltare la parola di quegli uomini di buona volontà che invocano la fratellanza tra i popoli: solo gettando solidi ponti si possono superare i tanti «muri del Mediterraneo» che ci sovrastano.
Del resto, basta rileggere la storia da Maometto ai giorni nostri. Nei secoli, si sono segna- lati diversi esempi: è il caso di San Francesco d’Assisi che nel 1219 - quando la Terrasanta era sempre più insanguinata - sbarcò a Damietta per approdare alla corte del sultano Al-Malik Al-Kamil ed invocare la tregua nel nome di Dio. Altri due personaggi di spicco: il patriarca Timoteo - che, tra il VIII e il IX secolo, affrontò verbalmente il califfo AlMahadi – e il vescovo Abu Quarrah che uscì vincitore da una sorta di processo pubblico alla corte di Al-M’mun, figlio di Al-Rashid, il più illuminato califfo della storia. Ma anche sull’altro fronte ci sono stati molti costruttori di pace come dimostra la storia di Saladino», il sultano che consentì ai pellegrini cristiani di accedere a Gerusalemme e lasciò anche alla Chiesa la gestione della basilica del Santo Sepolcro.
Ma ora è davvero così difficile riprendere quel filo del dialogo? Bisogna essere realisti: ci sono tanti problemi e continuano ad incombere molti nuvoloni neri. Un caso significativo: nell’intervista - «imprimatur» finale al libro assieme a quella del padre spirituale sciita Mohammad Masjed Jamei -, il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso appena scomparso, si è soffermato sul discorso di Ratisbona del 2006 di Papa Ratzinger che venne male interpretato dai mass media. Anche perché fece seguito all’intervento dell’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi, del settembre 2000 che anticipò l’11 settembre di un anno dopo e tutti gli
j’accuse successivi. In quell’occasione, Benedetto XVI aveva fatto notare che nel Corano era contemplato l’uso della spada per difendere l’Islam. Il porporato francese ci ribadiva che quell’intervento era stato strumentalizzato anche se il predecessore di Francesco non aveva forse dato «l’attenzione necessaria al fatto che, per un pontefice, le parole possono pesare in un modo molto diverso». Un peccato veniale, insomma, che ha avuto, però, enorme eco. Il successore di Ratzinger sta cercando di voltare pagina e tenta di ricostruire quel ponte del dialogo anche se lui stesso ammette che «nessuno di noi ha la sfera di cristallo per sapere come andranno le cose». Francesco ci prova e invoca: «Mai più guerre nel nome della religione». In molti ci sperano, da una parte e dall’altra.
QUEL CRUCIALE ’78 «Un peso che non immaginavo così grande e che sento col passare dei giorni di non poter sopportare», confida Papa Luciani, la sera prima dell’improvviso decesso. Fa parte degli episodi inediti che il vaticanista Orazio La Rocca racconta in L’anno dei tre Papi (edizioni S. Paolo, 288 pp, 20 euro), una bella cronaca dedicata al 1978, anno cruciale quando si succedettero tre Papi: Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II.