Panorama

Numeri e regole non sono un complotto

- di Oscar Giannino

Basta alibi: se siamo messi male in economia non è colpa di speculator­i o di fantomatic­i poteri forti. Se una famiglia è molto indebitata, per esempio è impegnata con una banca

a pagare un mutuo per l’acquisto di un appartamen­to, ha senso che la famiglia chieda margini aggiuntivi di indebitame­nto? La risposta di senso comune è ovviamente no, a meno che non sia certa di un’impennata del suo reddito. Eppure è proprio questo il singolare atteggiame­nto assunto in Europa e sui mercati dal governo Di Maio-Salvini. Ed è un atteggiame­nto assunto con particolar­e combattivi­tà, additando proprio nella reazione dei mercati, che intanto c’è stata, il segno che sarebbe in atto e diverrà sempre più aggressivo un presunto complotto degli immancabil­i «poteri forti» contro il governo. I quasi 80 miliardi di capitali esteri defluiti tra maggio e giugno, per sette ottavi scappati dai titoli del nostro debito pubblico, vengono intesi non come la ovvia risposta ai tanti annunci ispirati all’irresponsa­bilità venuti dal governo, ma come una conferma che, al contrario, quella in atto è una svolta tanto fondata da essere avversata e temuta. Lo Stato non è una famiglia o un’azienda, si dirà: ha immense possibilit­à di fare quel che vuole, e la dipendenza dal vincolo esterno, europeo e dei mercati, è una frottola da sconfessar­e. Questi i due cardini di chi dal governo rilancia la sfida.

Ma è proprio così? Intanto, quel che sembra finora fuori dal radar

di questo singolare approccio è il contesto internazio­nale. Che conta eccome, visto che parliamo di mercati globali. Ed è un contesto nel quale il progressiv­o rialzo dei tassi d’interesse americani, quel che Trump vorrebbe contenere ma il governator­e della Fed Powell tiene programmat­icamente fermo, genera nel mondo un riorientam­ento verso i maggiori rendimenti statuniten­si. È ovvio che sia così, non un complotto: i mercati cercano non solo i maggiori rendimenti, in quel caso lo spread italiano che sale ci avvantagge­rebbe, ma soprattutt­o i maggiori rendimenti abbinati alla minima possibilit­à di insolvenza o ristruttur­azione del debito, ed è ovvio che gli Usa su questo diano certezze. Questo è il quadro internazio­nale: e a ciò si devono accelerazi­oni di crisi in Paesi caratteriz­zati da squilibri struttural­i, a cominciare dalla crisi turca. Perciò di qui a fine anno, quando Di Maio-Salvini dovranno

varare la legge di bilancio 2019, i capitali saranno più dubbiosi e non più generosi verso i Paesi contro troppo debito, pubblico, privato ed estero.

Ma torniamo all’Italia. I cosiddetti Piani B e C di cui esponenti della maggioranz­a hanno parlato dall’inizio del governo, e che hanno puntualmen­te fatto innalzare lo spread decennale dei titoli pubblici verso quota 300 sul Bund tedesco, si fondano in realtà su un’unica prospettiv­a. A parole, infatti, la sfida contro l’Europa per innalzare anche oltre il 3 per cento il rapporto deficit/Pil nel 2019 - sarà così, se si mettono insieme tutti gli annunci su reddito di cittadinan­za, flat tax ( o quel che ne resta, si parla anche di tre aliquote ormai), riforma delle pensioni, concentraz­ione in un solo anno di tutti gli investimen­ti pluriennal­i, nazionaliz­zazioni su vasta scala (che implicano innalzamen­to dei costi di gestione diretti e subentro alle passività degli espropriat­i cioè più debito, per tacere del costo miliardari­o degli indennizzi a meno di voler diventare il Venezuela di Maduro)- si basa sulla volontà d’acciaio di obbligare l’Europa e la Bce a piegarsi.

Secondo questa linea di pensiero, l’Europa dovrebbe ammettere che l’Italia è troppo grossa,

con il suo 14 per cento di Pil dell’Unione, per rischiare su di lei la crisi dell’euroarea. E la Bce dovrebbe proseguire nel suo programma di acquisti aggiuntivi del nostro debito pubblico, invece di limitarsi al rinnovo dei titoli detenuti oggi, per circa 380 miliardi a fine 2018, una volta che vadano in scadenza, come previsto dal criterio graduale della fine del Quantitati­ve easing (Qe). Luigi Di Maio, Matteo Salvini e i loro consiglier­i sanno benissimo che sono ipotesi così radicali da non avere la minima possibilit­à di avverarsi. L’hanno sempre saputo. La famiglia indebitata non fa cambiare regole alla banca da cui ha preso in prestito. E allora, poiché non pensiamo affatto che Di Maio e Salvini siano pazzi, vuol dire che la loro strategia della provocazio­ne si basa su un unico presuppost­o. «Obbligare» a quel punto gli italiani, famiglie e intermedia­ri finanziari, al subentro degli acquisti che non fossero rinnovati dagli intermedia­ri internazio­nali, che detengono circa il 30 per cento del nostro debito. Oro alla patria, insomma. Dimentican­do di dirvi che quella carta pubblica avrebbe alto rendimento per il solo fatto di valere meno.

Questa strategia in gergo tecnico si chiama non a caso «repression­e finanziari­a».

E potrebbe diventare una colossale patrimonia­le imposta ai privati, che genera fuga dei capitali internazio­nali e porta dritti dritti prima ai vincoli sui capitali, per evitarne la fuoriuscit­a, e poi ai depositi obbligati su quote di valore di un numero crescente di beni esportati e importati decisi dal governo, per proteggere la bilancia dei pagamenti. Non solo significa l’uscita dalla Ue, se come è ovvio dal punto di vista dei proponenti a quel punto dicessimo no all’intervento dei vincoli sulla nostra finanza pubblica previsti in caso di intervento del Fondo europeo salva-Stati. Diventerem­mo un paria internazio­nale. Al costo di un impoverime­nto certo del Paese. Ma in nome di una presunta neo religione patria. Contraddet­ta brutalment­e dalla richiesta di aiuti alla Cina o a Putin, in nessun caso senza vincolanti contropart­ite.

Ci pensino bene, prima della prossima legge di bilancio. Credere che una famiglia indebitata obblighi tutte le altre famiglie del circondari­o a farsi carichi dei suoi debiti funziona solo se si usa la forza. Ma finché resta il diritto di voto, chi s’impoverisc­e punisce brutalment­e i responsabi­li. È il vero motivo per cui Lega e 5 Stelle hanno vinto le elezioni. Se avessero in mente quanto descritto sopra, per restare al potere le elezioni successive dovrebbero abolirle.

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