Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Il pane, cibo essenziale per antonomasia, torna a essere di culto. E così l’idea di poter infornare un impasto casalingo in un forno pubblico riaccende lo spirito comunitario e diventa l’ultimo birignao modaiolo. Che partito da San Francisco, passa da Londra e arriva a Milano, grazie ai nuovi panificatori evoluti e salutisti.
l pane sarà forse diventato terribilmente cool? Un florilegio ha accompagnato l’apertura di Forno collettivo, locale milanese per il quale vale l’adagio no
men omen. Perché dall’autunno i suoi fuochi verranno messi a disposizione dei clienti con i loro impasti casalinghi anche se solo per due giorni alla settimana.
Sarà che l’iniziativa fa tanto bei tempi andati, ma ad essere collettivo, prima ancora dell’inaugurazione, a fine agosto, è parso l’entusiasmo di panificatori domestici ancora non pervenuti, per ovvie ragioni di calendario e di stampa che ha coperto la notizia con intere paginate di quotidiani.
Il progetto è di due giovani imprenditori, Davide Martelli e Alessandro Longhin, già creatori di locali di successo come The Botanical club e Champagne socialist, inclini al vagheggiamento: «L’autenticità è la cifra che caratterizza il nostro percorso, con il necessario sense of humour » dice Martelli. «E la bakery è una logica conseguenza del nostro locale dedicato a vini naturali, trait d’union la fermentazione e la ricerca sulle materie prime». Con cognizione di causa hanno chiamato una consulente, specialista del tema, giornalista e autrice di Altri grani, altri
pani (Guido Tommasi), Laura Lazzaroni. Poi si sono armati di una head baker, Carol Choi, dal curriculum particolarmente brillante: ha lavorato a Copenhagen con lo chef Christian Puglisi e al Noma accanto all’osannato René Redzepi che, in tempi non sospetti, pensò di servire il pane a mo’ di portata, come oggi lo chef abruzzese Niko Romito.
Cornice délabré in stile newyorkese, al forno
nostro sono seguaci dell’idea di panificazione lenta, quella con la pasta acida o madre, che richiede almeno un giorno di fermentazione e che ha il suo guru nell’atletico Chad Robertson, fondatore di Tartine a San Franciso. Ed è proprio in California che nasceva, a inizio degli anni Settanta, un movimento «primitivista» di resistenza all’industrializzazione del pane. Oggi c’è un recupero diffuso di quelle
radici artigianali che sta trasformando l’ethos delle panetterie: se prima dovevano somigliare a luoghi d’indulgenza, ora, puntano su una comunicazione salutista.
Esemplare il caso, a Oxford, di Modern baker, creato da una malata di cancro nel suo percorso verso la salute che collabora con la Newcastle University a ricerche sui benefici del pane: quello a lunga lievitazione sembrerebbe ridurre i livelli di glucosio nel sangue.
«Se in Italia i primi casi di panificazione di ricerca, come Davide Longoni a Milano, erano isolati, perché la produzione comune, si pensi alla michetta, al bocconcino, al quadrotto e ai formati della tradizione, avveniva con farine scadenti» racconta Laura Lazzaroni «al contrario ora assistiamo alla crescita esponenziale di panetterie di qualità, fenomeno che interessa soprattutto i giovani, coinvolti a diversi livelli della filiera, anche nella coltivazione di grani di vecchie varietà, che grantiscono aromi e digeribilità. Figlie di questi tempi in cui il consumatore è più consapevole e vuole tornare alle cose buone e fatte bene: farsi il pane a casa da soli chiude il cerchio».
Ora, tra scienza e marketing, la narrativa sulla
riabilitazione del pane si è accompagnata a un fenomeno sociale d’impatto sulle grandi città, per cui le panetterie di nuova generazione diventano luoghi d’aggregazione. Pioniere in tal senso è stato Pavé a Milano che da qualche anno è la destinazione gourmand per la bella gioventù internazionale tra poltroncine vintage. Tratto comune di questi locali è che diventono luoghi di sosta, con un menu per colazione pranzo e cena, di aggregazione, nella migliore delle ipotesi in grado anche di creare identità. Dal canto suo, la promessa di Forno collettivo, che nel suo locale abbina anche il suo pane a un bicchiere di vino figlio di Champagne socialist, è quella di ospitare presto protagonisti del mondo bakery.
«Tutto ciò rientra nel generale fenomeno per
cui luoghi nati con un certo scopo assumono una nuova funzione urbana» spiega la sociologa Antida Gazzola. «Nella società fluida l’atteggiamento del multitasking si è trasferito agli spazi». E se le cause dirette delle oscillazioni del gusto rimangono imponderabili: «Il pane, con il suo alto valore simbolico, trasmette un’immagine sana e nobile diventando un’icona di understatement in un mondo di cui abbiamo troppo» prosegue la sociologa, e cita la famosa boutade di Wally Simpson: «Non si è mai troppo ricche, né mai troppo magre».
Ecco, forse il pane, quello giusto, s’intende, è un nuovo status symbol chic? O forse dovremmo dire piuttosto radical chic? Siamo allora nel territorio dei rivoluzionari da salotto, ma sorvolando sui rivoluzionari, in questi tempi eterei di social network, ringraziamo il cielo che ancora ci sia un salotto. Nel nome del pane, e magari anche dello spirito di vino.