Tornare ai negozi chiusi la domenica non è segno di cambiamento. Ma del suo rifiuto
La disciplina degli orari dei negozi è una regola di dettaglio,
se confrontata con l’intera disciplina del commercio. Eppure, intorno a essa il dibattito è da anni vivacissimo. Da un lato, è una regola che vale un principio (libertà di scelta contro obbligo); d’altro lato, è stata caricata di aspettative che poco hanno a che vedere con la decisione di quando stare aperti. Ci sono le aspettative di quei dipendenti che lavorano oltre i limiti di orario e in violazione del rispetto dei turni, del riposo, degli straordinari. Aspettative non solo più che comprensibili, ma anche del tutto legittime, a tal punto che le violazioni alle tutele previste dai contratti collettivi nazionali devono essere denunciate, senza pretendere che siano le chiusure domenicali a evitare gli abusi.
Ci sono le aspettative di alcuni piccoli esercenti, convinti che le
loro difficoltà dipendano dalle grandi strutture aperte di domenica. Essi non hanno forse ben presente che le sfide che hanno davanti sono molto più grandi delle aperture festive e che, se vogliono affrontarle, devono essere i primi a sfruttare la possibilità di scegliere quando essere aperti, senza dover esserlo sempre, ma nei momenti in cui, data la loro esperienza, è più probabile che abbiano clientela. Facile a dirsi, certo. E, certo, la realtà è molto più complessa, così intrecciata con le difficoltà economiche delle famiglie italiane e minacciata dalla presenza del convitato di pietra, il commercio online (checché ne pensi il ministero dello Sviluppo economico di poter obbligare anche questo a stare chiuso). Ed è proprio per questo che non sarà l’imposizione a stare chiusi di domenica, che riguarderebbe tutti, piccoli esercenti compresi, a dare respiro alle loro attività.
Infine, ci sono le aspettative di chi vorrebbe che le domeniche
le famiglie andassero in chiesa o al parco. Ci saranno pure attività più edificanti di altre, ma l’obiezione va oltre la domanda se sia lo Stato a dover dire quali. Non è obbligando le persone a non andare ai centri commerciali che si può imporre loro dove andare e cosa fare. Tra tutte le aspettative, ci sono poi quelle che non si vedono. Come quelle di chi, con la liberalizzazione, ha trovato uno stipendio. Magari incerto e basso, ma comunque uno stipendio. Non si vedono le già tante persone che di domenica lavorano. Non solo quelli che svolgono servizi essenziali, ma anche chi consente alle famiglie di dedicare la domenica allo svago: ristoratori e camerieri, addetti museali, cassieri ai cinema. Non si vedono, infine, le aspettative dei consumatori, l’unica categoria alla quale apparteniamo tutti, commessi e proprietari di negozi, dipendenti e datori di lavoro, cattolici e atei. Se due italiani su tre, sondaggi alla mano, fanno acquisti di domenica, vuol dire che hanno trovato un modo di conciliare le tante cose da fare durante la settimana tra incombenze familiari e lavorative.
Tornare ai negozi chiusi di domenica è tutt’altro che segno del cambiamento, con buona pace degli slogan di Di Maio. È anzi segno di un rifiuto del cambiamento (degli stili di vita, delle abitudini, delle esigenze delle famiglie) che appare quanto di più reazionario vi sia.