Panorama

Tornare ai negozi chiusi la domenica non è segno di cambiament­o. Ma del suo rifiuto

- di Serena Sileoni vice direttore generale Istituto Bruno Leoni

La disciplina degli orari dei negozi è una regola di dettaglio,

se confrontat­a con l’intera disciplina del commercio. Eppure, intorno a essa il dibattito è da anni vivacissim­o. Da un lato, è una regola che vale un principio (libertà di scelta contro obbligo); d’altro lato, è stata caricata di aspettativ­e che poco hanno a che vedere con la decisione di quando stare aperti. Ci sono le aspettativ­e di quei dipendenti che lavorano oltre i limiti di orario e in violazione del rispetto dei turni, del riposo, degli straordina­ri. Aspettativ­e non solo più che comprensib­ili, ma anche del tutto legittime, a tal punto che le violazioni alle tutele previste dai contratti collettivi nazionali devono essere denunciate, senza pretendere che siano le chiusure domenicali a evitare gli abusi.

Ci sono le aspettativ­e di alcuni piccoli esercenti, convinti che le

loro difficoltà dipendano dalle grandi strutture aperte di domenica. Essi non hanno forse ben presente che le sfide che hanno davanti sono molto più grandi delle aperture festive e che, se vogliono affrontarl­e, devono essere i primi a sfruttare la possibilit­à di scegliere quando essere aperti, senza dover esserlo sempre, ma nei momenti in cui, data la loro esperienza, è più probabile che abbiano clientela. Facile a dirsi, certo. E, certo, la realtà è molto più complessa, così intrecciat­a con le difficoltà economiche delle famiglie italiane e minacciata dalla presenza del convitato di pietra, il commercio online (checché ne pensi il ministero dello Sviluppo economico di poter obbligare anche questo a stare chiuso). Ed è proprio per questo che non sarà l’imposizion­e a stare chiusi di domenica, che riguardere­bbe tutti, piccoli esercenti compresi, a dare respiro alle loro attività.

Infine, ci sono le aspettativ­e di chi vorrebbe che le domeniche

le famiglie andassero in chiesa o al parco. Ci saranno pure attività più edificanti di altre, ma l’obiezione va oltre la domanda se sia lo Stato a dover dire quali. Non è obbligando le persone a non andare ai centri commercial­i che si può imporre loro dove andare e cosa fare. Tra tutte le aspettativ­e, ci sono poi quelle che non si vedono. Come quelle di chi, con la liberalizz­azione, ha trovato uno stipendio. Magari incerto e basso, ma comunque uno stipendio. Non si vedono le già tante persone che di domenica lavorano. Non solo quelli che svolgono servizi essenziali, ma anche chi consente alle famiglie di dedicare la domenica allo svago: ristorator­i e camerieri, addetti museali, cassieri ai cinema. Non si vedono, infine, le aspettativ­e dei consumator­i, l’unica categoria alla quale appartenia­mo tutti, commessi e proprietar­i di negozi, dipendenti e datori di lavoro, cattolici e atei. Se due italiani su tre, sondaggi alla mano, fanno acquisti di domenica, vuol dire che hanno trovato un modo di conciliare le tante cose da fare durante la settimana tra incombenze familiari e lavorative.

Tornare ai negozi chiusi di domenica è tutt’altro che segno del cambiament­o, con buona pace degli slogan di Di Maio. È anzi segno di un rifiuto del cambiament­o (degli stili di vita, delle abitudini, delle esigenze delle famiglie) che appare quanto di più reazionari­o vi sia.

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