Panorama

Tra leghisti e grillini il confronto più difficile è sulla giustizia

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L’affondo di Alessandro Di Battista, che pretende dalla Lega il rispetto della sentenza

sulla restituzio­ne dei 49 milioni di euro del finanziame­nto pubblico, dimostra, se ce ne fosse stato bisogno, che la giustizia sarà il tallone di Achille della maggioranz­a gialloverd­e. Su quei temi, infatti, i grillini non possono trattare: non glielo consentire­bbero i loro media di riferiment­o, a cominciare da Il Fatto di Marco Travaglio; non lo accettereb­be quel pezzo di magistratu­ra, da Camillo Davigo a Nino Di Matteo, che, nei fatti, dialoga (vedi la nuova legge anticorruz­ione) con i 5 Stelle. Una condizione di impotenza che in un momento di sincerità, nei giorni delle polemiche tra Matteo Salvini e le procure, lo stesso Giggino Di Maio ha ammesso con il suo alleato di governo: «Io su questi argomenti i miei non li controllo, non riesco a reggere. Basta pensare a quello che direbbero Fico e i suoi».

Appunto, anche l’ala governativ­a

del movimento può accettare di andare allo scontro con i grillini tarantini dando l’ok all’accordo con ArcelorMit­tal sull’Ilva; può pure arrivare ai ferri corti con i no-Tav, ma non può essere non ortodossa sulla magistratu­ra: in fondo l’unico manifesto ideologico riconosciu­to dall’intero universo pentastell­ato è il giustizial­ismo. E questa condizione nel tempo può diventare il vero fianco debole della maggioranz­a gialloverd­e in un Paese come l’Italia in cui la giustizia, da più di venti anni, è una delle variabili fondamenta­li del risiko politico.

È molto probabile, infatti, che l’offensiva nei confronti di Salvini

da parte di Magistratu­ra democratic­a, la corrente tradiziona­lmente più vicina al Pd, prosegua nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. I segnali ci sono tutti: prima le accuse sugli immigrati clandestin­i arrivati sulla motovedett­a Diciotti, capi di imputazion­e con pene edittali fino a 30 anni per il ministro dell’Interno, anche se i profughi, appena sbarcati sul suolo italiano, hanno fatto perdere le loro tracce e per la maggior parte si sono resi irriperibi­li; poi, il sequestro dei 49 milioni di euro alla Lega, che di fatto privano di ogni risorsa Salvini per le prossime elezioni regionali ed europee; e infine, le dichiarazi­oni dei vertici di Magistratu­ra democratic­a del 7 settembre scorso contro il leader della Lega. Addirittur­a, visto che da noi anche le controvers­ie più impensabil­i finiscono in tribunale magari per un’accusa di abuso d’ufficio, la stessa riproposiz­ione di Marcello Foa alla presidenza Rai, potrebbe innescare un contenzios­o giudiziari­o: il Pd, infatti, è convinto (con tanto di pareri legali) che un candidato bocciato dalla commission­e parlamenta­re di Vigilanza, non possa essere riproposto una seconda volta e, nel caso, si prepara a ricorrere alla

magistratu­ra.

Tutto questo dimostra

che il fattore giustizia è il cuneo con cui la sinistra tradiziona­le vuole far saltare l’attuale equilibrio di governo. I leghisti ne sono convinti. «C’è una parte della magistratu­ra che, da quando siamo andati al governo, è scatenata contro di noi», ammette Paolo Tiramani, il deputato leghista che con la sua denuncia ha dato il via a un’inchiesta che ha coinvolto 35 persone per corruzione nelle gare di appalto per una cooperativ­a di servizi, la Punto service (in orbita Pd), e che ora rischia di decadere da sindaco di Borgosesia, come prevede la legge Severino, per una condanna in primo grado per le spese facili alla Regione Piemonte.

«La verità» arriva a dire Tiramani «è che la legge Severino dovrebbe essere rimessa in discussion­e, e sono certo che in Parlamento si troverebbe la maggioranz­a, a parte i grillini. Eppure anche loro dovrebbero fare i conti con i casi Raggi e Appendino». Insomma, tra i leghisti c’è anche la speranza che su questa tema delicato il dibattito tra i 5 Stelle possa avere un’evoluzione: ma di speranza, si sa, si può anche morire.

Gli sgambetti dei giudici puntano a far inciampare il governo

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di Augusto Minzolini

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