Passaggi a Reggio Emilia
S’intitola così la rassegna che anima la città fino a novembre con teatro, danza, musica. Ma il percorso, in un weekend, si può ampliare a grandi mostre d’arte.
Nell’autunno del nostro scontento, lontana dal cupo clima che avvolge le nostre città più grandi, brilla per ottimismo e vitalità la cosiddetta provincia italiana. È la sua rivincita. E così funziona come un antidoto anche il bombardamento a tappeto, con concerti e spettacoli (28 per l’esattezza), che da settembre a novembre illuminerà Reggio Emilia nella decima edizione del suo Festival Aperto. La rassegna di quest’anno si intitola Passaggi. I bei teatri ottocenteschi, il Valli e l’Ariosto, e il Cavallerizza intitolato a Cesare Zavattini, saranno la scena per musicisti e artisti, compagnie di danza e teatro. Con protagonisti eccellenti come il duo Stefano Bollani ed Enrico Rava (15 settembre), all’incrocio tra canzoni italiane, brasiliane e jazz; o come il grande violinista e compositore lituano Gidon Kremer, o, ancora, come la Chamber orchestra of Europe.
Ad alto impatto emotivo saranno gli incontri con Antonio Rezza, la Compagnie Wang Ramirez, e con The Yellow shark, riproposizione dell’ultimo lavoro di Frank Zappa, a 25 anni dalla sua morte. Ma qual è il cuore di questa costellazione così varia? Panorama gira la domanda a Paolo Cantù, direttore generale e artistico della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia: «Il cuore del Festival Aperto è lo sguardo sul contemporaneo, e poiché la cifra della creatività attuale è la permeabilità tra i generi, gli steccati non tengono. La sfida della nostra rassegna è proprio quella di raccontare come le discipline non abbiano più confini. Siamo partiti pensando al tema del cambiamento, a tutte quelle trasformazioni che le arti riflettono, e spesso anticipano, rispetto alla vita e alla storia». D’accordo, ma tra connessioni e contaminazioni, l’epicentro sembra essere accordato al corpo, con le sue storie, tensioni, aspirazioni. «È così» aggiunge Cantù «il corpo è il protagonista, direi con atti performativi non sempre classificabili, che attraversando i linguaggi contemporanei in qualche modo li unificano». Passaggi, cambiamenti, se ne potrebbe avere paura, in genere oggi succede così, e invece? «Invece» sorride il direttore «qui magari andiamo contromano, ma il nostro scopo, di operatori della cultura, è di dare un segnale di speranza, anche politico se vuole». Vogliamo.