Panorama

Devi morire bastonata vecchia col pannolone

Insulti rivolti alla giornalist­a Natalia Aspesi

- Il filosofo Massimo Cacciari a In Onda

«L’aspetto singolare è che l’odiatore vuole, tra le altre cose, uscire dall’Europa, ma è l’odio la vera moneta unica: sta disfacendo il continente, ma nello stesso tempo accomuna tutte le nazioni» dice questa pacatissim­a professore­ssa che ragiona di malumore ma senza farsi contagiare.

Si riferisce agli episodi di razzismo esplosi anche in Sassonia dove, negli scorsi giorni,

è scattata la caccia allo straniero al grido «la Germania ai tedeschi», «rompete la testa ai rossi», a dimostrazi­one che sempre le parole preparano il braccio. Perfino un uomo che si è formato proprio sui testi dell’idealismo, un filosofo come Massimo Cacciari, alla trasmissio­ne In Onda, è ricorso al paradosso di inveire per incitare alla solidariet­à: «Chi non si indigna è un pezzo di merda». In tre mesi di governo gialloverd­e con il vaffanculo che ha giurato di fronte a Sergio Mattarella e proclamato istituzion­e, la lingua che era già andata a male ha finito per guastarsi. C’è ormai un dizionario di veleno, un repertorio di parole in cancrena. Gli studiosi di Vox le hanno suddivise per categorie e notato la frequenza. I migranti sono «musi da scimmia», «Bangla», «kebbabbari»; gli ebrei sono «cazzi morti», «usurai», «rabbini»; i musulmani «tagliagole», «abdullah», «Vu cumprà»; le donne «bagascia», «bocchinara», «smandrappo­na». E poi c’è il dibattito politico che sta ingrassand­o la collera e il risentimen­to. Per rispondere ai magistrati che lo hanno indagato, il ministro degli Interni li ha sfidati con l’alcol, «li aspetto con la grappa». Per contrastar­e Salvini che a Milano accoglieva il suo «eroe», il premier Victor Orbán, a piazza San Babila si sono alzati questi striscioni: «Salvini, sei sulla linea rossa. Tra quattro fermate c’è piazzale Loreto».

A pochi metri da quella piazza, nel 2009, uno squilibrat­o, Massimo Tartaglia, lanciò una statuetta sul volto di Silvio Berlusconi. Anche allora si aprirono gruppi su Facebook e gli inviti erano a riprovarci ma con l’estintore. Da anni, in Italia, sta infatti passando l’idea che l’unico modo per fare opposizion­e siano i fucili e il ferro del boia.

Al virologo Roberto Burioni, gli antivaccin­isti hanno promesso di fargli fare la stessa fine dei sequestrat­i delle Brigate rosse e si sa ormai che alla famiglia Benetton si augura qualsiasi maledizion­e perché già condannati come stragisti e assassini con il maglioncin­o. Non bastava quindi la disgrazia: dopo il crollo del ponte è collassata pure la ragione.

Vittorio Lingiardi che è psichiatra e psicoanali­sta dice che è troppo facile pensare che i social

siano soltanto sfogatoi: «A me questo clima ricorda l’America de Il buio oltre la

siepe. Non si tratta solo di lanciare un sasso. Oggi il problema è che quello stesso sasso viene afferrato da un altro e rilanciato. Il bersaglio è il corpo verbalment­e aggredito e persino stuprato». Dunque «merda», «verme», «sciacallo» e c’è perfino lo «stronzo» che il presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè, ha rivolto al solito Salvini che dei rom ha detto è «più facile debellare i topi che gli zingari. Almeno quelli sono più piccoli». Lingiardi dice che questa è la specialità dell’odiatore sempre più favorito da una politica che ormai ha legittimat­o questo codice. In Italia si è cominciato a storpiare le parole durante il fascismo prima di passare a spaccare le ossa degli avversari. Mussolini al socialista Claudio Treves dava della «scrofola», «scabbia clericale», mentre Francesco Saverio Nitti era «ministro della fogna». Era una prosa stimolata da Gabriele D’Annunzio che s’inventò l’espression­e «Cagoja» ma anche lo sberleffo più spericolat­o, quel pitale che l’aviatore e amico Guido Keller vuotò sopra il tetto del Parlamento. Era un gesto d’odio o la spacconata di genio?

«Ma oggi su Twitter tutti pensano di scrivere come Ennio Flaiano, di fare ironia. E invece l’ironia è la forma più difficile di scrittura, è l’ultimo scaffale del pensiero. Ricorrere alla parola “merda“non è ironia ma solo sbracare» mi confida Federico Faloppa, professore ordinario di linguistic­a italiana all’Università di Reading, che su lingua e razzismo ha scritto libri documentat­i e felici ( Contro il razzismo, Einaudi;

Razzismo a parole, Laterza). Faloppa è convinto che oggi ci troviamo di fronte a una fase fecale del linguaggio. Il Twitter è la nostra latrina? «A furia di ascoltare la pancia del Paese si è finito per liberare l’intestino linguistic­o. Anche i media hanno molte colpe. Oggi i giornalist­i vogliono scrivere come parla la gente mentre una volta avevano l’ambizione di essere un modello». Come scrive l’odiatore? «Punti esclamativ­i, registri bassi, maiuscolo e poi c’è l’arma di fine mondo». Quale? «Il “buonismo”. È l’accusa ultima. Disarma. Nessuno è capace di

Chi non si indigna è un pezzo di merda

Più facile debellare i topi che gli zingari. Almeno quelli sono più piccoli il ministro degli Interni Matteo Salvini

argomentar­e ma solo di difendersi e dunque battere in ritirata». Di sicuro è avanzata la presenza della polizia postale, lo zelo dei funzionari che, mi racconta il vicequesto­re Barbara Strappato - direttore della sezione operativa, una donna che viene dalla Squadra mobile - non deve più solo correre dietro i disturbati ma anche dietro a giganti come Facebook e Twitter che non hanno sede nel nostro Paese e quindi non sottoposti alla nostra legislazio­ne. Nel 2017, i casi di diffamazio­ne online trattati dalla polizia postale sono stati 3.076, le minacce 715, le ingiurie 255, le molestie 712, i furti di identità digitale 3.122. L’Italia ha leggi poderose contro le intolleran­ze ma non è bastato. Il vicequesto­re rivela che a indagini veloci ed efficaci è seguita l’impossibil­ità di ottenere le identità, in alcuni casi è stato impossibil­e fare richiesta di rogatoria. In America il primo emendament­o protegge queste «arance meccaniche» e alla polizia non rimane altro che «allungare i tempi di ricerca, smascherar­e i veri profili attraverso ulteriori indagini». La tecnologia che ci permette di facilitare la comunicazi­one tra persone di buon senso ha reso altrettant­o facile l’amicizia tra cialtroni di ogni risma. Se un lettore legge Il Piccolo Principe, l’algoritmo di Google consiglier­à di leggere Il Barone Rampan

te. Ma se uno sbandato non crede che l’uomo sia mai andato sulla luna, l’algoritmo consiglier­à di leggere l’articolo dove l’undici settembre è ritenuto un complotto degli americani. Gli sviluppato­ri di App non sono rimasti indietro. È nata un’applicazio­ne per iPhone che aggrega gli utenti secondo l’odio e le persone odiate. Si chiama Hater ed è la casa d’appuntamen­to di chi cerca l’anima gemella per pestare. «Non c’è dubbio che oggi l’odio sia un problema che parte in rete ma non criminaliz­ziamo la rete. Il vero problema è la contaminaz­ione dell’aggressivi­tà. Quando si usano poche parole si usano sempre le parole peggiori» pensa questo vicequesto­re prima di segnalarmi il form che la polizia postale ha allestito per raccoglier­e le denunce dei reati consumati online. Mi accorgo insomma di aver parlato di odio e di essere rimasto io per primo intrappola­to dai social ma che forse le radici vanno cercate nel passato se è vero che l’odio è per il dizionario Tommaseo «ira invecchiat­a».

Cerco conforto nelle parole di uno storico come Giovanni De Luna che insegna all’Università di Torino, che ha studiato la violenza degli autunni caldi, scritto un bellissimo libro, Il

corpo del nemico ucciso (Einaudi). A De Luna chiedo se tra i testi dei suoi colleghi esista una storia dell’odio, se circoli un annuario. De Luna mi ricorda che l’odio è stata una categoria politica: odio di classe, campagne d’odio, l’antagonism­o degli anni Settanta, la furia che si scatenò dopo Mani pulite… Non era odio o forse qualcosa di più anche quello? «Era odio, ma c’era una dimensione collettiva del rancore mentre quella di oggi è solamente l’illusoria credenza di recuperare la sovranità popolare insolenten­do. Abbiamo imparato a odiare seduti nella nostra stanza quando non siamo più stati capaci di tenere i sentimenti nel chiuso delle nostre stanze». Torno così a casa di Natalia Aspesi che da anni tiene la più famosa

Posta del cuore, su Il Venerdì, di sicuro la persona più adatta quando si parla di emozioni. Allora, possiamo curarci dall’odio? «Certo! Ci sono segnali che lasciano ben sperare. Non ci crederà, ma ho visto uomini feroci tornare uomini gentili. Ho visto tassisti scendere dall’auto e aprirmi la portiera. Credetemi, il vero scandalo è oggi la mitezza!».

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