Panorama

La vera posta in gioco della pace

- Testo raccolto da Chiara Clausi)

ll premier etiope Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afwerki ( foto) hanno firmato il 16 settembre la pace a Gedda, Arabia Saudita. Un accordo raggiunto grazie anche alla spinta di Riad e di Abu Dhabi. Da 20 anni tra i due Paesi vi era una situazione «né di pace, né di guerra». Ora il premier di Addis Abeba sta tentando di normalizza­re i rapporti. L’11 settembre, giorno del nuovo anno etiope, sono stati riaperti i confini tra i due Paesi. Poi sono ripresi i voli e le comunicazi­oni telefonich­e. Gli Stati del Golfo hanno contribuit­o alla stesura dell’accordo perché vogliono estendere la loro influenza nel Corno d’Africa, nel Mar Rosso, nel Canale di Suez e nel Golfo, per contrastar­e l’ascesa dell’Iran, come già avviene per la guerra in Yemen e nella crisi con il Qatar. Fondamenta­le il ruolo degli Emirati arabi uniti, che hanno varie basi militari nella regione: in Somaliland, in Puntland, a Perim e a Socotra in Yemen. E ne stanno aprendo una nel porto di Assab, guarda caso in Eritrea. Per Abu Dhabi, il controllo delle vie marittime è importante a fini militari, ma anche commercial­i. Nell’area gli Emirati hanno realizzato vari investimen­ti, come l’accordo di 3 miliardi di dollari firmato a giugno con l’Etiopia. Ma ci sono anche motivi diplomatic­i alla base dell’azione degli Stati del Golfo, che vogliono presentars­i all’esterno con una buona immagine. Dietro l’accordo di pace ci sono anche motivi di politica interna dell’Etiopia, che aveva perso lo sbocco al mare durante la guerra con l’Eritrea e che ora lo riacquiste­rebbe. Il 95 per cento dei commerci etiopici passano per Gibuti, Sudan, Somalia e Kenya. Negli ultimi mesi il premier ha stretto accordi commercial­i con i Paesi dell’area, interessat­i anche a cooperare in materia di sicurezza. Abiy ha un nome arabo perché è per metà musulmano (per l’altra metà è cristiano) e può avere un buon ascendente pure sugli Stati del Medio Oriente. (

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AHMED SOLIMAN Analista del Corno d’Africa alla Chatham House di Londra

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