Sicilia, il business dell’accoglienza
Con 100 milioni di giro d’affari e 420 occupati, oltre all’indotto, il Centro richiedenti asilo di Mineo (Catania) è il più importante datore di lavoro della zona. Tutti i contatti sono buoni per farsi raccomandare, perché qui si entra senza concorso. Ma il Decreto sicurezza porterà molti licenziamenti. E c’è chi protesta: «Come faremo?». «Too big to fail».
Come le banche d’affari statunitensi nel 2009, anche il Cara di Mineo è «troppo grande per fallire». Il parallelo tra alta finanza e migranti sembra un’eresia. Non lo è. Per il Centro accoglienza richiedenti asilo più grande d’Europa lavorano 420 persone, che con l’indotto e gli impieghi indiretti arriverebbero a un migliaio. Un improprio «giro d’affari» stimato in quasi 100 milioni l’anno. Il Calatino, la zona del catanese limitrofa alla struttura, è terra di microaziende e dipendenti pubblici. Il Cara qui è come una piccola Ilva. Con soldi pubblici, però. Impossibile farne a meno.
Mentre a Roma viene approvato tra gli osanna il Decreto sicurezza, che prevede abolizione dei permessi umanitari e stretta sui rimpatri, in questo lembo di Sicilia i campanoni rintoccano lugubri. «Il Cara passerà da 3 mila a 2.400 ospiti, con un costo
giornaliero per immigrato che scenderà da 29 a 15 euro» annuncia il Viminale. La misura comporterà «risparmi superiori a 10 milioni di euro in un anno». La nuova gestione dovrebbe partire l’1 ottobre 2018. Intanto è scattata la procedura di licenziamento collettivo.
«Il nuovo bando di gara prevede una contrazione di ore e servizi: si tradurrebbe in 150 persone in meno» spiega Francesco D’Amico, segretario generale Filcams Cgil di Caltagirone. «Gli operatori del Cara sono soprattutto giovani: mediatori, psicologi, assistenti sociali. Hanno una formazione che non possono spendere nel mercato del lavoro». Poi c’è l’economia che ruota attorno al centro. «Panifici, supermercati, trasporti, lavanderie» elenca D’Amico. «E poi gli hotel. In servizio al Cara ci sono 250 militari, tra finanzieri, carabinieri e poliziotti. Alloggiano e mangiano in sei hotel in zona, che altrimenti sarebbero a rischio». Troppo grande per farne a meno. Troppe bocche da sfamare. Trop- po marcio da infilare sotto il tappeto. Eppure i dioscuri del governo hanno promesso il redde rationem. «Il Cara di Mineo è un vero e proprio lager: prima chiude e meglio è» ha detto un mese fa il vicepremier Luigi Di Maio. Mentre il suo omologo e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, spera che venga «raso al suolo».
Il centro, arrivato a ospitare 4 mila stranieri, è fulgido simbolo di degrado e malaffare. Una relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno migratorio, presentata il 21 giugno 2017, parla di «condizioni sanitarie precarie», «appartamenti fatiscenti», «servizio medico deficitario», «personale inadeguato», «traffico di droga e prostituzione», «opacità amministrativa», «gestione clientelare»: il Cara è l’emblema di un «approccio evidentemente fallimentare al fenomeno migratorio e alla gestione dell’accoglienza».
Il relatore del testo è Giovanni Bur- tone, ex deputato del Pd. Da più di un anno è sindaco di Militello Val di Catania, a pochi chilometri da Mineo. «Quest’area ha un declino demografico spaventoso» scuote la testa. «E si sta spopolando perché mancano opportunità: centinaia di ragazzi a spasso diventano una piaga sociale. Senza considerare l’occupazione indiretta. Se si rinuncia a un centro d’accoglienza in Veneto, chi esce trova un’alternativa. Da noi è impossibile».
A giugno 2017 Burtone e i colleghi della commissione scrivevano: «Il Cara deve essere chiuso nel più breve tempo possibile». Oggi però il sindaco di Militello sottolinea il paradosso: «L’impiego qui è stata l’unica compensazione. Adesso bisogna fare un fronte comune per difendere il lavoro». Già, ma come? Il nuovo bando prevede meno soldi e meno ospiti. «Allora vuol dire che invece di lavare i piatti in quattro, li laveranno in sei...».
Il «fronte comune»
è quello che stanno costituendo primi cittadini e sindacati: tavoli tecnici, riunioni in prefettura, accorati appelli. Nessuno tocchi il Cara. Il gruppo è coordinato dal sindaco di Mineo, Giuseppe Mistretta, eletto in una lista civica di centrodestra: «Io sono sempre stato contrario al Cara, ma non possiamo permettere che un’emergenza sociale diventi occupazionale. Un giovane che è entrato nel mondo dell’accoglienza, dove lo trova un altro impiego nel terzo settore? Ha sbagliato chi ha venduto questo modello come solido. Ma non si può utilizzare un territorio e poi dire: “Basta, ora non servite”».
Mistretta non nega il vantaggi sulla spossata economia locale: «Il Cara è diventata la partita Iva che assume di più nel Calatino: a Mineo, 5 mila abitanti, ci sono un centinaio di dipendenti. Ma l’impatto non è stato solo positivo.
Questa città s’è caricata un peso notevolissimo. Prima era famosa per aver dato i natali allo scrittore Luigi Capuana e a Ducezio, il re dei Siculi. Adesso la conoscono per il Cara e le inchieste giudiziarie».
Sotto indagine è finta anche il predecessore di Mistretta, Anna Aloisi. Il 13 dicembre 2018 l’ex sindaco di Mineo, assieme ad altre 14 persone, andrà a processo per turbativa d’asta e falso nella concessione dell’appalto dei servizi, dal 2011 al 2014. Dal procedimento è uscito Luca Odevaine, ex membro del tavolo nazionale di coordinamento sui migranti e già vice capo di gabinetto con Walter Veltroni sindaco di Roma: ha patteggiato sei mesi di reclusione. Ad Aloisi è contestata pure la corruzione: «promessa di voti» in cambio di assunzioni. Nell’indagine è implicato anche l’ex sottosegretario alle Politiche agricole, Giuseppe Castiglione, già proconsole siciliano dell’Ncd.
Come il suo collega di Mineo, pure Gino Ioppolo, sindaco di centrodestra a Caltagirone, il Comune più importante della zona, è sempre stato avverso al Cara. Adesso indossa i panni del facile profeta: «Dopo aver ammannito speranze, oggi i nodi vengono al pettine. Quello che veniva considerato un nuovo modello di sviluppo sta rivelando i suoi limiti. Sono sempre stato scettico. Ma ora è necessario tutto l’impegno possibile perché non si perda nemmeno un impiego».
Torniamo sempre lì:
il più grande e malgestito centro per l’accoglienza europeo è diventato un’altra mammella pubblica. «Il Cara ha trasformato il tessuto economico e sociale di questa terra» analizza Ioppolo. «Quelli che lavorano lì dentro una volta aspettavano il posto dalla politica. Al Cara non c’è mai stato nessun concorso pubblico. Si entra solo per chiamata diretta: politica, amicizie, sindacati. È lo sbocco parastatale di diplomati e laureati. Pura economia assistita». A cui fa, però, fa in parte da contraltare l’aumento vertiginoso del caporalato.
Allo spuntare dell’alba, centinaia
di extracomunitari scavalcano i muri di recinzione del centro, inforcano scassate biciclette e si lanciano sulle strade provinciali. «Sembra una tappa all’inseguimento del Giro d’Italia» sorride amaro Ioppolo. Le forze dell’ordine tollerano. Meglio alla mercé di aziende agricole con pochi scrupoli che in giro a bighellonare. Braccia da reclutare per una paga da miseria: tre euro all’ora. Va meglio a quelli che fanno i domestici nella case private: 30 euro al giorno. Manodopera illegale. Mestieri sottratti agli italiani. Ammette Ioppolo: «Braccianti, operai e muratori vengono a lamentarsi continuamente. Hanno ragione. Ma io che posso farci?». Tutti lì, a ripetere al sindaco la stessa litania: «Perché fate lavorare i neri al posto nostro?».