Così Caravaggio cambiò la pittura
Il grande artista ha lasciato nella capitale i suoi primi capolavori con il loro sorprendente punto di vista. Racchiusi nella chiesa di San Luigi dei Francesi. ncora una volta devo misurarmi con Caravaggio. Lo farò qui, tornando a scriverne; e lo faccio
A Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi con episodi della vita di San Matteo. Siamo nel 1599. Si chiude un’epoca; un’altra se ne apre. «Quì avvenne cosa, che pose in grandissimo disturbo, e quasi fece disperare il Caravaggio, in riguardo della sua riputatione; poiché havendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo, e postolo sù l’altare, fù tolto via da i Preti, con dire che quella figura non haveva decoro, né aspetto di Santo, stando à sedere con le gambe incavalcate,
e co’ piedi rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso pubblicata in Chiesa, quando il Marchese Vincenzo Giustiniani si mosse à favorirlo, e liberollo da questa pena; poiché interpostosi con quei Sacerdoti, si prese per il quadro e glie ne fece fare un altro diverso, che è quello si vede hora sù l’altare». È un episodio significativo del nuovo rapporto con i committenti ufficiali pubblici. Ciò che prima rimaneva in una cerchia
ristretta di amatori adesso è dichiarato agli occhi di tutti. Caravaggio non è soltanto un buon pittore ma subito un maestro «tanto che li pittori all’hora erano in Roma presi dalla novità, e particolarmente li giovini concorrevano a lui, e celebravano lui solo, come unico imitatore della natura e come miracoli mirando l’opere sue, lo seguitavano a gara, spogliando modelli ed alzando lumi; e senza più attendere a studio, e insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza, e per via il maestro e gli esempi nel copiare
il naturale». Assistiamo ora allo sviluppo delle sue prime idee: ed ecco le figure dipinte con la stessa obiettività dei fiori e dei frutti e l’episodio storico e allegorico della Voca
zione di San Matteo diventare una riunione di giocatori in osteria. Caravaggio sembra prescrivere a se stesso una norma cui non può sottrarsi per l’avvenire: quella, cioè, di non rappresentare nessun avvenimento alla luce del sole, bensì in una stanza schiarita da un lume, capace di determinare potenti chiaroscuri. Anche le scene ambientate all’aperto, come l’Estasi di San Francesco o i vari San Giovanni Battista, sono illuminate con un forte lume artificiale. Ma soprattutto in Caravaggio è molto vivo lo spirito teatrale: le due grandi tele con la Vocazione e il Martirio di san Matteo e anche le due versioni di San Matteo e l’an
gelo furono ambientate su un palcoscenico con pochi elementi essenziali utili a definire l’ambiente, una finestra, un tavolo, due sedie per l’osteria o una colonna e un altare per la chiesa, uno sgabello in bilico per lo studio
del santo diventato evangelista. E si tratta sempre di scenografie originali: nella Vocazio
ne i personaggi sono in costume dell’epoca, di diversa età: mentre giocano sono sorpresi da un avvenimento improvviso. Senza essere annunciati entrano dalla porta due pellegrini, e con essi una luce improvvisa. I pellegrini sono vestiti con abiti senza tempo, camminano scalzi, hanno capelli poco curati, mani grandi e nodose; il più giovane alza il braccio quasi con indolenza, facendo brillare la mano vibrante nell’ombra: vuole indicare uno dei giocatori e lo fissa con intensità; lo stupore e la curiosità di Matteo si rispecchiano nello sguardo del suo giovane amico. Due altri giocatori non si accorgono di nulla; un terzo si volta all’improvviso marcando le gambe e puntando la mano sullo spigolo dello sgabello, intensamente attratto. Il dialogo delle mani dei due protagoni
sti sa molto di mimica teatrale, ma è anche un essenzialissimo modo di comunicare, di stare a metà strada fra il quotidiano e il simbolico. Caravaggio in questo riesce: nel mantenere perfettamente autonomi e perfettamente comunicanti i due livelli, il significato letterale e quello morale. Quando passa all’episodio del Martirio, qualche complicazione compositiva, memoria di impianto manieristico, sembra rendere più difficile il passaggio fra i due livelli e forse proprio per un’accentuazione scenografica.
La sintesi dell’episodio precedente rischia di frammentarsi in tanti singoli episodi che all’evidenza naturalistica alternano un’enfasi gestuale eroica, come nel caso del giovane carnefice al centro, o acrobazie virtuosistiche come nel caso dell’angelo che si sporge dalla nuvola per allungare la palma al santo che, con perfetta sincronia, porge la mano, come in una corsa a staffetta. Puro teatro è anche la pala centrale, nella seconda versione, dove vediamo il santo con il ginocchio su uno sgabello in bilico mentre intinge la penna, pronto a segnare i punti essenziali del discorso che gli enumera l’angelo sospeso a mezzana.
Il santo è, come si conviene alla poetica di Caravaggio, un semplice popolano, con la fronte solcata dalle rughe per gli anni e i pensieri: ha le mani grosse, da lavoratore, pur essendo paludato in un largo mantello. Niente a che fare con il rude popolano analfabeta della precedente versione, ma certo ancora un personaggio lontanissimo da quello che soltanto qualche anno prima l’evangelista era stato nelle innumerevoli rappresentazioni dei pittori manieristi. Ma se qualche concessione a nuove eleganze, a un dialogo meno nervoso e polemico con Annibale Carracci, è nella figura del santo, quella dell’angelo, pur elegantissima nel ritmo formale, è un’ennesima versione dei ragazzi di strada chiamati a vestirsi da Bacchini, e sembra star sospesa in aria soltanto grazie al lenzuolo che fa da sostegno, con un espediente richiesto dal regista. Certo, con questi dipinti il Caravaggio entra d’ufficio nella pittura di storia, pur ostinandosi a vestirla dei panni della cronaca quotidiana. Se finzione deve esserci - egli sembra pensare - deve apparire più vera del vero.