Panorama

Si fa presto a dire sovranista

Dall’Italia all’Ungheria, dall’Olanda alla Romania, passando per la Germania. A sette mesi dalle elezioni attraverso l’Europa si sta saldando un fronte che ha come parola d’ordine il populismo. E che, nel Continente, può cambiare molti equilibri.

- di Anna Maria Angelone

A sette mesi dalle europee, la macchina elettorale scalda i motori in vista di una campagna che si annuncia cruciale per il futuro dell’Ue.

Da una parte i partiti tradiziona­li, in continuo calo di consensi, dall’altra i movimenti nazionalis­ti e marcatamen­te euroscetti­ci che i sondaggi danno in ulteriore crescita rispetto al voto del 2014. In mezzo la Brexit, a fine marzo 2019, le cui ricadute (tuttora imprevedib­ili) si faranno comunque sentire anche sul fronte politico. Insomma, mai come ora l’assetto istituzion­ale europeo è stato tanto in bilico.

Novembre, il mese decisivo.

Il mese che inizia è decisivo per la scelta dello «Spitzenkan­didat», il nome del potenziale presidente della Commission­e europea, indicato dai gruppi politici dell’Europarlam­ento. Una prassi di «investitur­a» inaugurata cinque anni fa che, di fatto, designa alla guida di Bruxelles il candidato del gruppo che conquista la maggioranz­a nelle urne. Così accadde nel 2014, con Jean-Claude Juncker grazie alla vittoria dei popolari. Un metodo che non convince tutti i leader (a partire da Emmanuel Macron che vorrebbe tornare a una decisione presa dai governi) ma che, in qualche modo, diventa uno snodo anche per le future alleanze.

Il Ppe, famiglia che raggruppa la Cdu di Angela Merkel, la Övp dell’austriaco Sebastian Kurz, i popolari spagnoli di Pablo Casado, i repubblica­ni francesi, Forza Italia ma anche gli ungheresi del «nazionalis­ta» Viktor Orbán, voterà nel congresso del 7-8 novembre a Helsinki fra due aspiranti: l’ex premier finlandese Alexander Stubb, l’«Iron man» che parla fluentemen­te cinque lingue, e il tedesco Manfred Weber, attuale presidente del gruppo e superfavor­ito. Weber, eletto in Baviera con la CSU, storica alleata della Merkel ma spina nel fianco dell’attuale coalizione di governo con il ministro dell’Interno (anti-migranti) Horst Seehofer, sarebbe l’uomo-ponte per fare la sintesi delle due anime e arginare una possibile deriva populista.

Più movimentat­a la scelta dei liberali di Guy Verhofstad­t: una decina i «papabili» che si sfideranno al congresso dall’8 al 10 no-

vembre a Madrid, forse con lo stesso ex premier belga di nuovo in corsa.

Quattro i nomi in lizza per i Verdi, in forte rimonta alle elezioni di metà ottobre in Baviera, in vista del congresso del 2325 novembre a Berlino: la belga Petra De Sutter, il 42enne olandese Bas Eickhout, il bulgaro Atanas Schmidt e la tedesca Ska Keller, oggi al timone del gruppo a Strasburgo.

La famiglia socialista, invece, farà la sua scelta al congresso del 7-8 dicembre a Lisbona fra due contendent­i (oggi entrambi vice di Juncker): lo slovacco Maroš Šefkovic e l’olandese Frans Timmermans, più noto agli italiani come sfegatato tifoso romanista.

Il variegato fronte euroscetti­co, invece, latita. Finora né il gruppo dell’Europa delle Nazioni e delle Libertà, dove siedono gli eurodeputa­ti del Rassemblem­ent National di Marine Le Pen e la Lega di Matteo Salvini né l’Efdd, che riunisce l’Ukip di Nigel Farage (ormai in uscita per la Brexit) e il Movimento 5 stelle, hanno indicato un nome. E questo non è l’unico segnale di scarsa compattezz­a. Perché questo eterogeneo raggruppam­ento di picconator­i è dato in forte ascesa, non è facile capire su che piattaform­a programmat­ica potrà marciare unito. Vediamo perché. L’avanzata dei «populisti» . Le urne, certamente, continuano a premiare le formazioni sovraniste. Come confermano anche i voti locali di ottobre in Baviera (con l’exploit di Alternativ­e für Deutschlan­d all’11 per cento) e in Trentino (dove la Lega è diventata il primo partito). Un’analisi dell’agenzia di stampa statuniten­se Bloomberg, effettuata sui risultati elettorali degli ultimi trent’anni in 22 paesi europei, rivela che il consenso verso le forze populiste o di ultradestr­a è costanteme­nte cresciuto. Alle elezioni nazionali queste rappresent­avano, in media, appena il 5 per cento nel 1997 ma, già nel 2007, erano salite all’11 per cento per poi toccare il 16 per cento nel 2017. Trend analogo alle europee (dove contribuis­ce anche il sistema proporzion­ale): qui si è passati dal 3 per cento di seggi nel 1999 al 15 nel 2014.

La sfilza di successi elettorali di sovranisti, nazionalis­ti, populisti, euroscetti­ci, anti-elite, xenofobi e patrioti è lunga: dall’Austria alla Danimarca, dalla Svezia alla Slovacchia, dalla Francia alla Germania, dai paesi dell’Est all’Italia stessa (vedi mappa nella pagine precedenti). Trainati dal malcontent­o degli effetti della globalizza­zione, della crisi economica, della disoccupaz­ione o della criminalit­à, l’onda «sovranista» (declinata in vari modi e più corposa a destra che a sinistra) ha attecchito nelle periferie, nei quartieri popolari e poi nel ceto medio. Che identifica­no nell’Ue il grosso nemico da abbattere.

Così vicini, così lontani. Tuttavia, se questi movimenti tendono a coagularsi su due questioni chiave, ovvero il controllo dell’immigrazio­ne e la difesa identitari­a, per il resto assumono volti diversi. L’esame di 39 partiti politici (su un totale di 268 attivi) classifica­ti come «populisti e di estrema destra» dal Chapel Hill Expert Surveys, un monitoragg­io delle posizioni dei partiti nazionali in rapporto all’integrazio­ne europea svolto da una rete di esperti, fotografa grandi distanze sui temi di libertà civili, economia, stili di vita, multicultu­ralismo e modelli di società. Il Partito per la Libertà olandese, per esem-

pio, difende i diritti degli omosessual­i negati da molti altri. La lotta contro la corruzione è un mantra per le formazioni tedesche e austriache ma non una priorità per quelle dell’Est europeo.

Se alcuni partiti sfondano a livello locale o nazionale, emerge una certa debolezza su base transnazio­nale dove questo fronte non è coeso come si potrebbe immaginare. Del resto, la natura stessa di questi partiti contrasta con la logica comune: come possono coesistere le sovranità di ciascuno e la difesa dei reciproci interessi nazionali?

Dal punto di vista geopolitic­o, per esempio, Lega, Movimento 5 stelle e Rassemblem­ent national di Marine Le Pen sono totalmente pro-Russia mentre i paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca ), pur affini quando si tratta di sposare una linea anti-migranti, sono contrari a riallaccia­re legami con Vladimir Putin e l’odiata ex Urss.

Perfino sull’immigrazio­ne, ci si allontana. I «sovranisti» concordano nel frenare i flussi verso l’Ue ma mentre quelli del nord Europa non negano il welfare scandinavo ai migranti, le frange più xenofobe dell’Est europeo erigono muri su tutto. Così, se l’Italia insegue la riforma del trattato di Dublino per ripartire gli arrivi dalla nostra penisola, gli «alleati di Visegrad» la bloccano e non accolgono le quote di profughi stabilite per i rispettivi paesi.

Ma è sull’economia che si registra la maggiore incompatib­ilità. I paesi nordici e la Germania sono per il rigore nei conti pubblici mentre in Italia il governo giallo-verde è alle prese con una bocciatura della manovra per il pesante sforamento del deficit concordato. I sovranisti francesi e italiani sono contro le delocalizz­azioni, ovviamente benedette da quelli dell’Est. Anche sul collante dell’euroscetti­cismo, potente aggregator­e per tutti, si verificano defezioni quando si parla di vantaggi: come fanno i paesi dell’Est per i fondi europei, di cui sono ancora i primi beneficiar­i.

Le divisioni in questa ultima legislatur­a all’Europarlam­ento.

Come si traduce tutto questo a Strasburgo? Una mappatura delle votazioni ad appello nominale dei gruppi politici e delle coalizioni fra schieramen­ti di questi ultimi cinque anni, condotta da Andreas Karpf dell’università Sorbona di Parigi e Darko Cherepnalk­oski dello Jožef Stefan Institute di Lubiana, prova che (salvo eccezioni su interventi anti-globalizza­zione o simili) nazionalis­ti ed euroscetti­ci sono i più divisi in aula. Mentre marciano compatti sui social media. L’analisi degli account su Twitter, infatti, traccia una media più alta di messaggi e interazion­i di questi due gruppi rispetto agli altri. Un dettaglio che i ricercator­i interpreta­no come frutto di un marketing di propaganda politica ben costruito. «Il fatto che il gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà e quello dell’Europa della Libertà e della Democrazia diretta sono i meno coesi può essere attribuito al rispettivo focus politico» concludono gli studiosi. «Per questi gruppi sembra più importante essere allineati contro l’Ue e chiamare gli elettori all’indipenden­za e alla sovranità nazionale che essere d’accordo sulle misure da approvare in Parlamento».

Anche VoteWatch, il think-tank che vigila sull’attività parlamenta­re, rileva la stessa incoerenza in un’analoga analisi sul primo anno di lavori di questi due gruppi: alta partecipaz­ione e unità su sicurezza, immigrazio­ne e interventi sociali ma non sulle misure dell’economia come spesa pubblica, agricoltur­a e pesca, mercato interno e protezione dei consumator­i, politiche di sviluppo. Divergenze anche quando si vota su digitale, commercio internazio­nale ed energia nucleare. E per il futuro?

I sondaggi prevedono una conferma del blocco di centrodest­ra.

Secondo l’ultimo sondaggio sulle prossime europee pubblicato dal quotidiano online americano Politico, popolari e socialisti perderebbe­ro ancora terreno. Il Ppe resterebbe la prima forza a Strasburgo ma dimagrito di una quarantina di seggi. Il centrosini­stra subirebbe una battuta d’arresto peggiore, con 53 eletti in meno. In tutto, sfumerebbe­ro un centinaio di seggi. Destinati ad andare, per lo più, in mano agli schieramen­ti populisti ma un buon apprezzame­nto lo avrebbe anche En Marche di Emmanuel Macron, al suo debutto alle europee. Certo, è ancora troppo presto per fare i conti. Ma se così fosse, sulla carta, i sovranisti sarebbero il secondo gruppo per dimensione. E questo ne alzerebbe il profilo politico nell’emiciclo: a loro spetterebb­ero due vicepresid­enti, parte dell’ufficio di presidenza e sarebbero relatori dei dossier più importanti. Sempre che riescano a costituire un gruppo omogeneo. In tal modo, potrebbero far saltare una nuova coalizione

MATTEO SALVINI CERCA DI FORMARE UN’«INTERNAZIO­NALE»

CHE VADA DA ALTERNATIV­E FÜR DEUTSCHLAN­D A UNA FIGURA CENTRALE PER I SOVRANISTI COME VIKTOR ORBÁN

fra popolari e socialisti.

Per capire se e quanto sovranisti e populisti inciderann­o in Aula, però, bisognerà aspettare di capire come si comporrann­o alcuni pezzi del mosaico.

Un’incognita è la scelta di Macron. I liberali lo hanno invitato nel loro gruppo, qualcuno dà per fatto l’accordo anche se il presidente francese potrebbe sparigliar­e gli schieramen­ti tradiziona­li creandone uno trasversal­e, più in linea con il suo progetto politico. L’altro riguarda il Movimento 5 stelle che perderà l’Ukip di Nigel Farage. La strada dei liberali, già tentata nel 2017 e finita in un colossale pasticcio, sarebbe chiusa tanto più se andasse in porto l’accordo con Macron, corteggiat­o senza successo dai pentastell­ati. Ugualmente, l’ipotesi delle nozze con i Verdi, rispuntata per la comune sensibilit­à su temi ecologici, appare sbarrata dall’antieurope­ismo maldigerit­o dagli ecologisti. Non a caso Roberto Fico e Luigi Di Maio hanno parlato di «terza via» per costituire un proprio gruppo a Strasburgo, attraendo partiti con valori simili. Ma è un sentiero molto stretto.

Intanto in Italia. Quanto a Matteo Salvini, da tempo cerca di tessere un’alleanza aperta a tutti i sovranisti: da Rassemblem­ent National di Marine Le Pen ai tedeschi di Alternativ­e für Deutschlan­d, dagli olandesi di Geert Wilders ai danesi di Thulesen Dahl, dal Fpoe austriaco di Heinz-Christian Strache ai fiamminghi di Vlaams Belang. L’asse potrebbe coinvolger­e anche i polacchi del Pis di Jarosław Kaczynski (oggi i 18 onorevoli sono nel gruppo dei Conservato­ri ma le carte potrebbero rimescolar­si senza i Tories inglesi) ma non gli onorevoli eletti con Fidesz di Viktor Orbán, figura centrale per il fronte sovranista. Il leader ungherese, che ha subito l’umiliazion­e delle sanzioni dell’Europarlam­ento per aver infranto i valori fondanti dell’Ue in parte anche con i voti dei suoi colleghi Ppe, avrebbe potuto tentare la via solitaria uscendo dal gruppo. Più realistica­mente, Orbán ha scelto di restare e ha anticipato che sosterrà Weber. Ma, in ogni caso, l’«Internazio­nale sovranista» punterà a tenere vivo l’asse con lui per provare a spostare più a destra la linea dei popolari. Sempre che vengano confermati i pronostici attuali.

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