Della tv io sono una griffe
Piero Chiambretti prepara la sua nuova trasmissione che andrà in onda su Rete 4, La Repubblica delle Donne. «In quest’epoca la firma vale più del contenuto» dice. «E la mia è una firma».
P iero Chiambretti si è stufato di rilasciare interviste. Da quando Rete 4 ha annunciato l’inizio della sua nuova trasmissione,
La Repubblica delle Donne, la media è eccezionale. «Direi ottima. Nessuna puntata in onda ma decine di articoli pubblicati». Anziché complimentarsi con il suo ufficio stampa, se ne lamenta. Ha bisogno di pensare e questi appuntamenti glielo impediscono. Chiambretti s’infastidisce quando è costretto a parlare di Chiambretti e non può concentrarsi sul programma di Chiambretti.
Da quando ha iniziato a fare televisione ha condotto più di 30 trasmissioni. «Ho perso il conto. Sono andato su Wikipedia a contarle. Credo che il numero sia quello ma sono sicuro che molte mancano dall’elenco». Gli rimproverano da anni di rifare lo stesso programma, di fare il ready-made di se stesso. «Lo so, dicono che mi ripeto». Lui non se ne preoccupa. «Per me la ripetitività è un vanto. Credo nella griffe. In quest’epoca la firma vale più del contenuto. La mia è una firma».
Quelli che vogliono rottamarlo sono gli stessi che gli allungano la carriera. Lo chiamavano Pierino perché in televisione si muoveva da monellaccio anche se poi trovava sempre un Geppetto che lo proteggeva: Bruno Voglino, Angelo Guglielmi, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Francesco Cossiga…
Come Pinocchio è il bambino più vecchio d’Italia e come il burattino è stato condannato a invecchiare rimanendo piccolo. Chiambretti non è infatti cresciuto. Tutti sanno che è basso di statura (1,63 m) come lo era lo scrittore Leo Longanesi (1,50 m), un uomo che ha sperimentato tutto per non dovere eccellere in nulla. Per difendersi da chi ne faceva ironia, Longanesi sosteneva che rimanere basso era la sua prima forma di disobbedienza nei confronti della natura. «Longanesi mi piace. Era lui che diceva che nulla è più inedito dell’edito. Mi ritrovo nelle sue parole».
Chiambretti oggi ha pranzato tardi. A Cologno, negli studi Mediaset, dove con i suoi autori prepara l’esordio in prima serata, si ripara in un piccolo ufficio. Non ci sono che due tavoli, alcuni fogli bianchi e solo quattro sedie. Quando Chiambretti ha un lampo, prende appunti velocemente. Scrive tutto in maiuscolo e a stampatello. Dice: «Questo
ci può servire. Ricordiamocene». Seduto su una sedia da contabile, a volte reclina il capo come i maestri che cercano il pensiero intelligente che possa farli avanzare nel ragionamento. Tra gli uomini che hanno rinnovato la televisione è oggi senza dubbio il più longevo. «Per avere una grande vecchiaia bisogna vivere a lungo. Io mi preparo. Lavoro. Continuo».
Chiambretti ritiene la pensione un’idea terribile. Se potesse, da morto andrebbe in onda. «Tutti gli artisti vogliono morire in scena. Non desideriamo la pensione ma la temiamo. Il nostro lavoro non è niente altro che l’incessante tentativo di non finire pensionati». Della riforma Fornero dunque se ne infischia e naturalmente non intende servirsi di quella quota 100 che promette Matteo Salvini.
Quando è a Milano, vive in albergo. Non ha mai accettato l’idea di prendere casa nonostante lavori in questa città ormai da anni. «E perché dovrei? La mia casa è Torino. Io la penso come l’avvocato Gianni Agnelli. Torino è la città più bella d’Italia per partire e per tornare». Chiambretti infatti torna ogni fine settimana dalla figlia di sette anni.
Quando aveva circa la sua stessa età ha cominciato a vendere finti biglietti ai vicini di condominio. «Eravamo poveri ma tra i pochi privilegi che avevamo c’era quello di possedere un televisore. Bussavo agli inquilini e li invitavo a venire sabato sera a casa nostra. Erano gli anni ’60 ed era un’altra televisione. Dava la possibilità di vedere ciò che mai prima si era visto e che forse mai sarebbe stato possibile osservare. Oggi tutto è già visto. La televisione rischia di scomparire come le agenzie di viaggio. È difficile vendere ancora emozioni».
È stato un cattivo scolaro almeno per quanto riguarda la matematica mentre era notevole in italiano. I numeri non gli sono mai piaciuti. Neppure quelli che misurano l’audience. «È chiaro che tra la nicchia e il milione preferisco il milione. E però, non bisogna fare di tutti i numeri un fascio. Siamo inchiodati dal pericolo del fallimento e non si può fare nuova televisione. Una volta era difficile realizzare una buona idea, oggi è difficile solo convincere che l’idea sia buona». Ha iniziato a lavorare quando aveva 18 anni e come tutte le grandi storie italiane anche la sua è iniziata cantando sulle navi. «Speriamo, però, di non finirci». Prima ha frequentato qualsiasi tipo di scuola. Anche quella di odontoiatria ma, assicura, non ha mai messo le mani in bocca a nessuno. È stato matricola al Dams di Bologna senza mai avere possibilità di seguire le lezioni in aula. «Partivo da Torino con la mia Diane e ogni volta che arrivavo all’università trovavo uno striscione con su scritto: “Università chiusa. Occupata”. Più che l’università ho visto l’autostrada. Per fortuna di strada ne ho fatta, nonostante tutto».
TORINO È LA CITTÀ PIÙ BELLA PER PARTIRE E PER TORNARE: LO SOSTENEVA ANCHE L’AVVOCATO
Chiambretti dice di essere un artigiano del tubo catodico
anche se, oggi che quello catodico è scomparso, si definisce solo «un artigiano del tubo». Lo dice sorridendo, ma, a volte, è possibile che si immalinconisca, si chiuda in se stesso e non lascia che nessuno se ne accorga. «A Cristiano Malgioglio voglio bene; i miei autori sono la mia famiglia. Sono importanti…» ripete.
A quel punto il sorriso si restringe, il viso si contrae e Chiambretti se potesse li abbraccerebbe uno a uno. Il conduttore che inseguiva la prima Repubblica ai tempi de Il portalettere e che Umberto Bossi chiamava «cornuto», insomma al formidabile comico che pestava la coda al potere, capita di estraniarsi. Allora comincia a studiare i suoi amici e compagni. A ciascuno trova un difetto: «Vedi, Malgioglio è andato al Grande fratello. Ma poi mi manda affettuosità. Dice che io sono un genio. Come si fa a non amarlo?». Alla fine ricopre quindi
tutti di lodi, anzi, vuole convincere gli spettatori delle loro qualità: «Malgioglio è un cantautore eccezionale e sono felice che il Paese lo abbia riscoperto anche grazie a me». Di Chiambretti si è detto che sia tirchio. E invece, nel suo rilanciare e risollevare le carriere, una è appunto quella di Malgioglio, deve esserci una forma tutta sua di generosità. La sua televisione ha sempre dato l’impressione che sia arrangiata, improvvisata. Nulla è meno vero. Chiambretti è schiavo dei suoi programmi. Li confeziona e li disfa fino alla fine. Dopo tre mesi di lavoro si è accorto che la sua
La Repubblica delle donne andava completamente modificata. «L’ho montata tre mesi per smontarla. Non è stato un errore. Occorrevano tre mesi per comprendere che andasse riscritta. Quel percorso era necessario. In televisione si punta ad avere sempre il papa e poi si finisce con l’avere Pupo. Ma tra il papa e Pupo magari può arrivare un arcivescovo».
Beniamino Placido, che è stato il più acuto dei critici televisivi,
ha scritto che il segreto di Chiambretti è essere protagonista e spalla nello stesso tempo. «La spalla perfetta si chiama ospite ma in Italia anche gli ospiti si sono guastati». Si riferisce alla cattiva abitudine dell’ospite di farsi invitare solo per parlare del suo ultimo libro. Rivela che ormai l’ospite chiede le domande in anticipo, pretende che si parli della sua ultima fatica. Non scherza, non gioca, desidera la «marchetta». Chiambretti ama i colori, si veste con maglioni e calze coloratissime, e mal tollera le mezze tinte e appunto le intelligenze sbiadite. «In Italia si dice che ci siano tanti talk show ma a me sembrano solo talk senza show. Solo negli Usa il talk è anche show. La televisione funziona quando ci si diverte. La regola è sempre una: informare in maniera brillante».
Si informa in maniera disordinata e onnivora. Sta leggendo il libro di Giorgio Terruzzi dedicato alla figlia Giulia. Non promette di finirlo. Si sente in dovere di denunciarlo anche perché Terruzzi è uno degli autori della sua trasmissione. «Io leggo alla Kennedy. Non dico che sono Kennedy. Dico solo che leggo come faceva Kennedy». Apre i libri ma ne legge alcune pagine all’inizio, venti o trenta in centro e poi i paragrafi finali. Questo gli permette di essere coltissimo e saltare da un saggio a un classico, da un libro di narrativa a uno di storia. Spizzica. Rapina. Non vuole essere un erudito. Anche lui come Umberto Eco è più attento ai libri che compra ma che non ha letto rispetto a quelli che ha sfogliato ma dimenticato. «Ho sempre troppo poco tempo».
Non è chiaro se riesce a guardare gli altri programmi televisivi. Di Massimo Giletti dice che un amico e un professionista. Riconosce che viene da una scuola. In questo caso, quella di Giovanni Minoli. Non trova, quella di Giletti, una televisione populista, anzi, è convinto che sia snobistico ritenerla populista. «In ogni caso per la televisione vale quanto si diceva per la Dc. Turiamoci il naso e votiamola. In questo caso guardiamola».
Di Alessandro Cattelan, che viene considerato un suo erede, preferisce non parlare. «Posso parlare di Benigni, Greggio, Villaggio. Sono tutti uomini che ho conosciuto. Dalla vita professionale intensa. Su di loro si può esprimere un giudizio». Di Chiambretti si è detto che maneggi il trash, la spazzatura, e che tenti l’azzardo ultimo ovvero provare a farne estetica. «Vale ancora quello che dicevo sulla ripetitività. Dalla spazzatura si può ottenere energia e solo chi è ricco può fare spazzatura. Vedi, ho perso tanto tempo. Non mi lasciano lavorare». Chiude la porta. Ha bisogno di pensare.
PER LA TELEVISIONE VALE QUANTO SI DICEVA PER LA DC: TURIAMOCI IL NASO E GUARDIAMOLA