Liu Bolin, il camaleonte dell’arte
Tra le macerie di un villaggio, nascosto dai giornali di un’edicola, immerso tra frutta e verdura. E ora, in perfetta simbiosi vegetale con le vigne di Reims. L’artista cinese ci racconta la genesi del suo lavoro alla maison Ruinart e di come la sua tecni
Dalla denuncia all’elogio della bellezza. Dal gesto artistico quale atto politico alla celebrazione di brand prestigiosi attaverso il linguaggio dell’arte. Ovvero dall’operazione di mimetismo tra le macerie del demolito Sujia Village International Art Camp, nel 2005 al body painting tra le suggestive vigne francesi dello champagne Ruinart, maison storica, nata nel 1729, in quel di Reims. La fortunata carriera di Liu Bolin, classe 1973, da Shandong, in Cina, tocca una serie di complesse tematiche legate al mestiere d’artista che avrebbero potuto interessare il critico Walter Benjamin per arricchire di nuovi capitoli il suo famoso saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ora senza inerpicarsi sulle vette della speculazione teorica, risulta interessante la riflessione di Liu Bolin sul ruolo delle nuove forme di mecenatismo, sull’importanza del corpo quale mezzo espressivo dell’artista e sul concetto di «scomparire in piena vista» che da più di 10 anni rappresenta la sua cifra stilistica. Lei si è fatto conoscere, agli inizi, per le sue azioni di camouflage di protesta contro il Governo cinese che demoliva le case d’artista, contro il facile uso delle armi in Usa, contro il razzismo a Palermo. Ora i suoi lavori sono per lo più legati a aziende del lusso, ultima delle quali è proprio Ruinart? In realtà le mie prime opere erano una riflessione sulla Cina e sulla sua realtà politica poco sensibile alle vicende della gente più semplice e affatto attenta alle esigenze degli artisti e dei creativi cinesi. Successivamente c’è stato un cambiamento nel mio spirito e nella mia vocazione e uscendo dalla Cina, andando in altri Paesi, soprattutto venendo in Italia, il mio interesse si è spostato all’umanità intera e alla sua esistenza. Ho capito che anche mostra-
re delle cose belle, lavorare sul concetto di sorpresa e di stupore potessero aiutare le persone a stare meglio, magari ad alleggerire le loro preoccupazioni. Inoltre quando ho cominciato a lavorare con le aziende del lusso che mi hanno contattato lo hanno fatto perché credevano che le mie opere potessero sostenere i loro prodotti e la loro comunicazione. Per esempio, la mia collaborazione con il brand Moncler non è stata lontana dallo spirito del mio lavoro perché insieme abbiamo costruito una comunicazione del brand che ha veicolato anche un messaggio di sensibilizzazione nei confronti dell’ambiente. E nel caso di Ruinart, invece, quali sono stati i punti di contatto? Quando mi sono avvicinato a questa maison, ho voluto studiarne la storia e ciò che mi ha affascinato sono state due cose: la prima riguarda la sapienza del mestiere che ciascuna figura professionale possiede e la seconda la capacità di questa azienda centenaria di rinnovarsi e osare anche attraverso operazioni coraggiose come la sponsorizzazione di opere artistiche. Per questo ho voluto che alcune delle persone che lavorano per Ruinart venissero coinvolte nel mio lavoro, partecipando attivamente a tutto il processo creativo. Come ha reagito la sua famiglia quando ha saputo che voleva fare l’artista? Mio padre ha pensato che fossi pazzo, mia madre non ha capito cosa volessi dire. In Cina, prima degli anni Ottanta nessuno sapeva cosa fosse il lavoro di un artista. Le dico solo che quando mio padre mi vedeva dipingere, mi spezzava i pennelli. Alla fine ho vinto io. Ma come è nato dentro di lei questa vocazione, da cosa è stata alimentata? A essere sinceri tutto è cominciato con la realizzazione di un cappello a maglia, lo stesso che ho fatto indossare una volta a mio padre quando ha capito che il mio lavoro era apprezzato in tutto il mondo. Io da bambino non ho mai avuto giocattoli, ho sempre realizzato da solo spade, macchinine, treni e ho sempre provato moltissima soddisfazione da questa manualità e creatività. Così ho capito che cosa volevo fare. Quindi ritiene che la manualità sia importante per un artista? Credo che non ci sia molta differenza tra arte e manualità, anzi considero il lavoro dell’artista molto manuale. E soprattutto penso che l’arte debba essere al servizio delle persone. Io non faccio distinzioni tra un mestiere e un altro, né differenze ideologiche. Non mi piace essere una star ma nello stesso tempo non credo che per poter dire delle cose bisogna essere emarginati e fuori dai circuiti. Questa è una vecchia visione. L’immagine fotografica che rappresenta la sua opera non è scattata da lei. Quanto è importante il rapporto con chi le fa la foto?
Io ho un team di lavoro per ogni Paese e prima di cominciare spiego esattamente quali sono i ruoli, i rapporti e le mansioni specifiche. Io sono il regista dell’operazione e l’attore principale. Per realizzare il mio ruolo di «uomo invisibile» serve molta disciplina, sono costretto a rimanere per diverse ore, dalle quattro alle otto, fermo, immobile affinché il mio corpo possa essere dipinto interamente. Penso che il rapporto con il fotografo sia importante perché lo scatto finale è affidato a lui, ma a posizionare la macchina ci penso io, è il mio punto di vista. In sostanza si tratta di un lavoro complesso e collettivo dove però è chiara fin dall’inizio la proprietà intellettuale. A quali nuovi progetti sta lavorando? A dire il vero, le foto e il camouflage sono solo una parte della mia produzione. Io spero di poter realizzare una mostra in cui esporre le mie opere pittoriche, le installazioni e le altre forme d’arte di cui mi occupo. Nel mio lavoro c’era protesta ma ora mi interessano le riflessioni di carattere globale. Non sono un politico ma credo nel potere dell’arte. Mr. Bolin, mi dica la verità, si prova piacere ad essere invisibile? La sparizione e il silenzio sono allo stesso tempo verità e finzione. Io non mi nascondo ma mi confondo con e tra le cose diventando così memoria umana e architettonica e in questo modo metto in evidenza miserie o bellezze, dipende dai casi. Ma non è un atto di mimetismo passivo, è una riappropriazione culturale.