Shirin Neshat. Le mie radici sparse nel mondo
In attesa di vedere Looking four Oum Kulthum, il suo film sulla più famosa cantante del mondo arabo, l’autrice iraniana Shirin Neshat suggerisce di pranzare al Fanelli Cafe di New York, di fare un viaggio sul Nilo e di liberare il corpo e la mente con un
Shirin Neshat risponde al telefono con la voce argentina che non pensavi avesse. Ha uno sguardo da sfinge e la diresti remota. Invece è presente e calda. È una delle artiste iraniane più note al mondo e sul rapporto con la madre patria ha costruito la narrativa del suo lavoro, dove diaspora e condizione femminile sono punti focali: un discorso «candidamente sovversivo», che l’ha alienata dall’Iran. Fotografa e regista, il suo ultimo film arriva in questi giorni in Italia per un breve tour museale. Looking for Oum Kulthum, questo il titolo, è dedicato alla Maria Callas del Medio Oriente, la cantante egiziana, morta nel 1975, per la quale persino il parlamento d’Egitto interrompeva le sedute, cosicché i deputati potessero ascoltarne i concerti alla radio. «Donna fuori dagli schemi, dalla sessualità ambigua e senza figli in una società conservatrice, ma comunque una star capace di catalizzare il mondo arabo» racconta Neshat. «La sua storia mi permette di rivelare un contesto ricco e cosmopolita che invece viene descritto come barbarico, dall’Occidente». Quali sono al tempo presente le donne che considera role model? Amo le donne forti, ma mi piacciono soprattutto le figure che sanno mitigare una carriera attiva con una vita normale, di madri. E mi colpiscono personaggi come Malala Yousafzai, Nobel per la pace, o come Shirin Ebadi, avvocato anche lei insignita col Nobel, a cui è proibito tornare in
patria. M’impressiona che il loro successo ne condizioni l’esistenza, rendendole eroi e vittime, in un misto di fama e vulnerabilità. Ha qualche forma di nostalgia? Sono cresciuta in una casa di campagna, mio padre coltivava un giardino. Ricordo distintamente l’odore della primavera e gli alberi in fiore. Così non l’ho mai più sentito. E quando gli amici mi spediscono immagini di alberi fioriti in Iran torno a quei momenti e mi scendono le lacrime. Qual è l’elemento distintivo del suo stile? Mi piace mescolare abiti tradizionali a capi contemporanei minimalisti e avere sempre un gioiello etnico vistoso come una scultura. Il suo rituale per il benessere? Dalle 3 alle 5 volte la settimana seguo lezioni di danza africana. Un rito per il corpo e per la mente. Il suo rifugio? In campagna ai confini con il Canada. Io e mio marito abbiamo una casa vicino al lago Champlain, nel Vermont. In questa stagione, il foliage, è bellissimo. A New York ha dei ristoranti in cui torna? Sì, sempre gli stessi e ordino ogni volta lo stesso piatto. Da Fanelli Cafe e Sally roots mi sento a casa, non amo i posti lussuosi. Il viaggio più affascinante che ha fatto di recente. In barca sul Nilo, partendo da Luxor. Il Paese è ormai abbandonato dalle rotte del turismo, e grazie a questo il nostro viaggio era privo delle distrazioni della modernità, solo antichi templi e turbanti, sembrava di essere piombati nel passato. Souvenir di viaggio? Artigianato e gioielleria tribale che compro nei bazar. Come le bambole tunisine che ora ho sparse per casa. Che cosa non manca mai in valigia? Musica, libri e naturalmente i miei gioielli. Colonna sonora prediletta? Non mi stanco mai di ascoltare Moshen Namjoo. L’ultimo libro che ha letto? Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie. Il dettaglio «beauty» che la caratterizza? Il kajal come lo portavano le regine egiziane. Davvero non l’ho fatto apposta, è stato uno shock quando nei fregi dell’antico regno ho visto da vicino che il mio make-up è identico al loro. Ma lo disegno così da sempre. Il suo argomento di conversazione alle feste? Le ultime mostre o gli ultimi film visti, e Trump. Dove legge le news? Sono per la carta stampata, a casa mia c’è ogni giorno il New York Times. Mi dica un segreto. Delle volte vado a ballare la notte in un locale che si chiama House of yes, a Brooklyn. Se non abitasse a New York in quale città amerebbe vivere?
Senza dubbio a Marrakech.