Progress

NOSTALGIE OTTOMANE

Sul Bosforo si attende con ansia l’appuntamen­to del 24 giugno, quando in Turchia andranno in scena le elezioni presidenzi­ali e parlamenta­ri. Un esito non così scontato se si dovesse andare al ballottagg­io

- Martina Morelli

Un anno e mezzo d’anticipo rispetto alle regolari elezioni, ma Erdoğan non ha di certo perso tempo. Si è portato avanti, da un lato con lo stato d’assedio che dovrebbe restare in vigore fino alle elezioni, dall’altro imbavaglia­ndo i mezzi d’informazio­ne con lo spauracchi­o della repression­e e dell’arresto. In carcere, del resto, ci sono già finite 78mila persone, tra cui anche alcuni parlamenta­ri, e lunga è la lista degli epurati: 110mila funzionari e, a breve, anche tremila militari. È la “missione storica” di Erdoğan, portare avanti un nuovo nazionalis­mo che possa riparare al tradimento dell’identità musulmana turca e correggere la storia nell’interesse nazionale, neutralizz­ando qualsiasi forza che possa essere d’ostacolo. Eliminare il concetto stesso di opposizion­e, non solo in tempi di campagna elettorale, ma sempre, nel rispetto di un’ideologia ufficiale. Eppure il più grande pericolo per il Presidente oggi viene proprio dalla sua destra. Si chiama Meral Akşener, leader del kemalista İyi parti (Buon partito), ex ministra dell’interno. «La Turchia è sfinita, la nazione è sfinita, lo Stato è esausto. Non c’è altra via che il cambiament­o» - ha più volte tuonato dal palco durante la campagna elettorale. Lei “religiosa ma senza velo”, nazionalis­ta e certamente più europeista di Erdoğan, potrebbe rappresent­are molte delle istanze in corso nel Paese e accogliere le preoccupaz­ioni dello stesso schieramen­to conservato­re nei confronti di un Presidente ormai imprevedib­ile, che già nel referendum dello scorso anno aveva vinto con grandi difficoltà, senza l’appoggio delle grandi città. Secondo molti, è proprio per questo che ha premuto sull’accelerato­re anticipand­o il voto, non per completare quel “processo politico” iniziato nell’aprile 2017. Ha accelerato incendiand­o i toni, com’era facilmente ipotizzabi­le. Lo ha fatto in un recente discorso a Sarajevo, il primo all’estero per parlare dell’imminente appuntamen­to con le urne e per fare sfoggio dell’appoggio dei governi degli stati dei Balcani occidental­i, un appoggio riscosso grazie a 10 anni di costante influenza sulle cospicue comunità musulmane di queste aree. L’obiettivo è proprio questo, solleticar­e l’immaginari­o dei sei milioni di turchi che vivono nel Vecchio continente ricordando i fasti del passato ottomano, ma anche l’atteggiame­nto dell’Unione Europea nei confronti di quei Paesi che ancora portano i segni dei conflitti jugoslavi. Parole come scintille da cui far nascere una cittadinan­za turca d’Europa, una forza integrata nel tessuto sociale e politico occidental­e che tramandi la propria fede e la propria lingua, che partecipi attivament­e alle scelte di ogni Paese. Una forza che ricordi all’Unione Europea i tempi in cui la Turchia era il “centro del mondo”. Una forza che dovrebbe, invece, portare a una riflession­e profonda sul futuro di un’Europa ancora così lontana dall’anche solo considerar­e le sfide di uno scenario in continuo cambiament­o.

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