STEVE MCCURRY
Una della più belle mostre del mondo: il maestro del reportage racconta quarant’anni di questo pianeta attraverso l’umanità che lo abita e la luce che lo illumina.
“Ogni foto che scatto può essere vista come un’immagine indipendente e memorabile, ma allo stesso tempo è parte di una storia più ampia”
Èquella bambina afghana, che ci guarda enigmatica e fiera, con i suoi occhi enormi, a dire dove è la storia del ritratto del Novecento. E Steve McCurry è l’autore di questa nuova Gioconda che supera ritratti di principesse e stelle del cinema. Il perché non lo sa nemmeno lui. A dire il vero non sembra farsi tante domande. Anima semplice, il più grande maestro del reportage a colori, cui kodakchrome ha affidato l’ultimo rullino del millennio per celebrare la fine della pellicola.
Vede solo attimi, come coincidenze, luce come tessuto, occhi nudi. Va a fondo di tutto inconsapevolmente: vede un bello scorcio, una luce perfetta e passa l’intera giornata ad aspettare il transito di persone fino a quando… ecco un bambino che si affaccia correndo, vola in aria con un salto nella curva perfetta della luce azzurra. Cosa inseguisse, dove andasse, a Steve non interessa. Oppure, trova la foto mentre sta andando a farne altre, per caso. Così immortala la mamma che chiede l’elemosina con il figlio in braccio durante un monsone. L’incontro ha il tempo del semaforo rosso e la cornice appannata di un finestrino di un taxi. Vede le ragazze in Etiopia segnate da cicatrici profonde e seni appena pronunciati in attesa, accanto a un manichino trovato in chissà quale discarica, simbolo di una bellezza di plastica lontana, arrivata fino a lì come un enigma incomprensibile di estetica straniera. Ci sono poi i contrasti: i monaci che scoprono il loro essere anche bambini con una pistola gio- cattolo. Le albe di bruma e il rosso delle tuniche, le luci verdi. O ancora fotografa quello che tutti hanno fotografato: come il Taj Mahal, ma trova la cornice del vapore di una locomotiva; fa un ritratto Robert De Niro come se fosse un vicino di casa su una veranda atemporale.
La mostra itinerante Oltre lo Sguardo, in cui ammirare questi capolavori ha avuto a Roma un allestimento senza precedenti, non solo per le foto, tra le più belle del mondo, ma per lo studio espositivo. Ogni singola immagine rimaneva sospesa nello spazio e illuminata in modo unico. Così ci si perdeva in questo labirinto facendo un viaggio incredibile attraverso il pianeta, la luce, le esistenze, le culture, i colori.
Che cosa è la bellezza? La bellezza non è una cosa che si cerca, è un qualcosa da cui siamo ispirati, una sorta di piacere che deriva dal cercare la perfezione. Ma dopo un attimo scopriamo che è proprio l’imperfezione forse all’origine della bellezza.
Quando inquadra e poi fa una fotografia, dopo lo scatto il risultato è quello che si aspettava, quello che prevedeva nella sua immaginazione? Credo che ogni fotografo aspiri, come dicevo, alla perfezione. La perfezione in cui combacia- no i sentimenti che hanno ispirato la foto con il risultato finale dal punto di vista tecnico. È difficile da ottenere, ma forse non è necessario. Non bisogna tormentarsi, devi fare solo del tuo meglio e capire che talvolta proprio nel disordine, nel caos, nel “non voluto” c’è la foto migliore.
La sua fotografia è più ispirata alla filosofia, alla pittura o all’architettura? Forse dalle arti visive, per i colori. Ma è molto difficile capire da quale background derivi un’ispirazione. Penso che nella fotografia ci sia molto della pittura, poi la manualità che è propria della scultura, il design dell’architettura, la visione d’insieme, la storia, la narrazione che deriva dalle nostre letture che più ci hanno emozionato.
Nel bianco e nero ci sono un’infinità di grigi, anch’essi colori, perché non considerarli tali? Cosa non la stimola del bianco e nero?
Una volta la fotografia era solo in bianco e nero all’inizio, i maestri di quest’arte non avevano possibilità e l’hanno esplorata certamente meglio di me. Oggi c’è la scelta di una tecnologia più avanzata: perché non usare i migliori materiali disponibili?
Come è cambiato il reportage? Oggi tutti possono andare ovunque. Chiunque può fotografare il Colosseo o Cinecittà. La nuova sfida è essere negli stessi luoghi e fare foto che nessuno ha mai visto.
Nei visi, nelle persone, si riflette la cultura, il territorio, la storia di un Paese? Per un ritratto di solito accompagno la persona seguendola in quello che sta facendo e cerco di cogliere l’attimo, con la luce che gioca con me. Dall’India alla Cina, ovunque gli scatti migliori li ho fatti per caso, quando non avevo nessun progetto specifico. Ma per me un tassista di Roma alla fine non è diverso da quello di Bombay: le persone sono uguali, piangono, soffrono, ridono. Si vestono in modo diverso, si truccano o abbelliscono in modi che a noi appaiono strani, come a loro apparirò strano io. Pur essendo di diversi per razze, colori o religione siamo tutti esseri umani.
La prima foto che ha scattato? A una ragazzina che abitava vicino a me, mentre guardava verso l’orizzonte. C’era già la mia personalità, la voglia di ritrarre l’essere umano, il suo sguardo, il paesaggio... Le persone vivono la loro vita, il fotografo non deve interromperla, ma in qualche modo farne parte.
Cosa direbbe a un viaggiatore che vuole fare delle belle foto? Ci sono distinzioni tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud del mondo? Un vero viaggiatore non ha mete, non fa distinzioni e soprattutto difficilmente scatta foto.