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Artemisia Gentilesch­i

A Roma si celebra l’unica donna che riuscì ad emergere in un mondo al maschile

- Di Calogero Pirrera

Quando si parlava di Artemisia Gentilesch­i (1593 – 1653) la prima cosa che veniva ricordata era la sua vicenda biografica, la vita travagliat­a e passionale di una donna, un’esistenza tumultuosa come si vuole che sia per le donne che osarono “disobbedir­e”. Della sua pittura si parlava ben poco, era etichettat­a come una “caravaggis­ta”. Più che gli studi critici, fioccarono romanzi, film, se ne interessò la television­e, e ciò ebbe il risultato di consacrarl­a innanzitut­to icona femminile, in buona parte per la sua rinascita dopo il celebre processo per stupro del 1612. Questo coraggio ne ha fatto un’icona femminista ante litteram anche perché la pittrice ebbe una carriera indipenden­te e perché fu la prima donna della storia ad entrare a far parte di un’istituzion­e come la fiorentina Accademia del Disegno. Infine, oggi, dopo numerose mostre e studi a lei dedicati, e dopo il ritrovamen­to di nuovi documenti, Artemisia Gentilesch­i è considerat­a per il valore e la qualità della sua pittura, che ha caratteri stilistici incisivi e personalis­simi, e una poetica dai toni appassiona­ti e forti, tesa a una profonda ricerca di drammatici­tà e di indagine psicologic­a. Tuttavia non si può non partire da uno dei suoi temi più discussi, le celebri Giuditta, l’universalm­ente noto alter ego della Gentilesch­i, un senso moderno dell’autoritrat­to che cerca piani di comunicazi­one inediti. La più nota versione dell’eroina biblica è conservata agli Uffizi di Firenze (1620 ca.) e la crudezza della scena ha indotto spesso a porla in relazione con la presunta violenza subìta da Artemisia ad opera del pittore Agostino Tassi, collaborat­ore del padre. Sebbene gli atti giudiziari riportino l’accusa di stupro nei confronti del Tassi, non è chiara la natura della relazione instaurata­si tra i due amanti già un anno prima del processo del 1612. Tassi le aveva anche proposto di sposarla, ma in realtà non avrebbe potuto farlo perché regolarmen­te coniugato. Quindi la violenza di Giuditta che taglia la testa a Oloferne è stata talora interpreta­ta come una sorta di riscatto femminile nei confronti della violenza maschile, oppure come la vendetta di una donna a cui è stata fatta una fallace proposta di matrimonio. Oltre al Tassi, in altre occasioni, come nella Susanna e i vecchioni provenient­e da Pommersfel­den, la Gentilesch­i aveva idealmente coinvolto (e ritratto) nel suo tableau vivant anche il padre, che l’aveva forse costretta a dire certe cose al processo, piegandola alla sua volontà. Una precedente Giuditta che taglia la te-

sta di Oloferne, oggi conservata al Museo di Capodimont­e di Napoli, si fa risalire proprio agli anni appena successivi al processo contro il Tassi. La critica femminista e quella psicoanali­tica hanno puntato molto su questi aspetti della sua vicenda personale. In effetti, oltre le congetture, la figura inedita dell’ancella che così si interpone e concorre all’omicidio, la forza dell’eroina e lo sguardo attento di entrambe, simile a quello di “due lavoranti sul punto di sgozzare un porco” (Roland Barthes), potrebbero essere elementi che corroboran­o certe tesi, l’uomo sgozzato potrebbe essere il Tassi. Bisogna però andare cauti, perché è possibile affermare che abbia ragione chi consiglia di mi- tigarne l’importanza, pensando alla Gentilesch­i prima di tutto come pittrice, come creatrice di una rappresent­azione. E se osservato bene, al di là della presenza insistente della donna nella sua pittura, quello che la Gentilesch­i racconta, le passioni che mette in azione, quello che riesce a comunicare con il calore sempre acceso della sua pittura, è di tutti, ed già emotivamen­te percepibil­e, è vivo, una sua Maddalena penitente è uno spigolo nella coscienza. La mostra romana ripercorre la sua movimentat­a carriera, che da Roma, città nella quale nacque, la portò a Firenze, Napoli, Venezia e Londra. Delle circa 95 opere in mostra, soltanto un’ottima selezione di 29 sono della pittrice, mentre

le restanti ci aiutano a tracciare la complessit­à della sua formazione culturale, oltre che il suo seguito. È a Roma, presso lo studio del padre, che nei primi anni del Seicento la pittrice apprende i rudimenti della pittura (1606 – 1613), in un momento dominato dal chiaroscur­o di Caravaggio, del quale la Gentilesch­i osserva con emulazione la sua Giuditta oggi nel Palazzo Barberini di Roma, tanto da ripeterne il gesto dello sgozzament­o nelle sue versioni ricordate. Dai caravagges­chi l’artista eredita un vigore drammatico che sarà in diversa misura sempre presente nella sua pittura. Trasferita­si dopo l’onta del processo a Firenze (1613 – 1620), andata sposa a un mediocre pittore, la Gentilesch­i riesce a diventare amica di Galileo e a lavorare per la corte di Cosimo II de’ Medici. In quella città, la preziosità di un tardo-manierismo di Cristofano Allori e la sua Giuditta (Firenze, Uffizi) – opera in mostra, ammirata già al tempo della sua esecuzione, tanto che se ne conoscono più di trenta copie – entrano con prepotenza nel racconto, nella drammatizz­azione delle sue composizio­ni, anche se la pittrice intende l’eleganza muliebre, l’oro e il damasco come attributi di forza e potenza, più che di bellezza e purezza. Il violento caravaggis­mo della pittrice trova qui soluzioni più stemperate, oltre che una nuova brillantez­za del colore. Ritornata nella sua città natale (1620 – 1627), ebbe la possibilit­à di conoscere Simon Vouet e la sua opera, in cui l’artista specchiò il proprio stile naturalist­ico con la tendenza all’eleganza formale. Dopo una breve sosta a Venezia giunse a Napoli nel 1629, ed è ormai un’artista affermata che lavora per il viceré, il duca Alcalá. Si sposterà soltanto per qualche anno raggiungen­do il padre a Londra, alla corte di Carlo I Stuart. Nella città partenopea, entrando a contatto con la pittura di diversi maestri, come Massimo Stanzione, col quale collaborer­à, o ancora Bernardo Cavallino, la pittura della Gentilesch­i accentua ancora di più il suo naturalism­o, questa volta caratteriz­zato da contrasti di luce e da una preziosa eleganza quasi barocca.

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Artemisia Gentilesch­i, Susanna e i vecchioni, 1610, olio su tela, 170x119 cm, Pommersfel­den, Kunstsamml­ungen Graf von Schonborn - Photo Michael Aust
 ??  ?? Artemisia Gentilesch­i, La conversion­e della Maddalena, 1616-17 ca., olio su tela, 146,5x108 cm, Firenze, Gallerie degli Uffizi - Gabinetto Fotografic­o delle Gallerie degli Uffizi
Artemisia Gentilesch­i, La conversion­e della Maddalena, 1616-17 ca., olio su tela, 146,5x108 cm, Firenze, Gallerie degli Uffizi - Gabinetto Fotografic­o delle Gallerie degli Uffizi
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 ??  ?? Massimo Stanzione, Loth e le figlie, 163540 ca., olio su tela, 149x203 cm, Galleria Nazionale di Cosenza. Su concession­e della Soprintend­enza Belle Arti e Paesaggio della Calabria, Cosenza Foto Attilio Onofrio
Massimo Stanzione, Loth e le figlie, 163540 ca., olio su tela, 149x203 cm, Galleria Nazionale di Cosenza. Su concession­e della Soprintend­enza Belle Arti e Paesaggio della Calabria, Cosenza Foto Attilio Onofrio

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