Il trionfo della carne
Per festeggiare questo tempo di festa, la tradizione italiana ha accumulato nei secoli le ricette più diverse caricandole di un grande significato simbolico, oltre che culinario. Nell’umbria francescana, tra Gubbio, Città di Castello e Umbertide, la sera della Vigilia, fin dal medioevo si prepara l’imbrecciata, una minestra di magro fatta con legumi e cereali (farro, grano, orzo, granoturco, fagioli, ceci, cicerchie, fave e lenticchie): non sempre vengono utilizzate tutte le varietà, ma in segno beneaugurale devono sempre essere dispari. Poi il giorno 25 è quello dell’abbondanza, rappresentata da grandi quantità di cappelletti al ragù: ancora oggi in alcune famiglie se ne preparano fino a quattromila tra Natale e l’epifania. I primi piatti, oltre che abbondanti, secondo altre usanze diventano anche raffinati e intendono appagare la vista oltre al palato: il rosso natalizio delle barbabietole colora le lasagne della Vigilia preparate nell’alessandrino e nell’oltrepò Pavese.
Quando si parla di antipasti e di secondi, Natale vuol dire soprattutto carne. I consumi esagerati dei giorni di festa, che un tempo rendevano simili i comportamenti alimentari di ricchi e poveri, mantengono anche oggi almeno una parte di questo significato. Al Nord si comincia sempre con sontuosi affettati di salumi. Ogni regione ha le sue specialità e, tra le più prestigiose, va ricordato il culatello di Zibello, perla culinaria dell’emilia che, almeno a Natale in segno di buon augurio, in quasi tutte le case sostituisce l’ottimo ma più comune fiocchetto. Poi, ovunque, diventano protagonisti tacchino, cappone, gallina, agnello, castrato e, in certe zone del Nord, il bue. In ogni caso, perché si tratti di un vero trionfo, spesso la carne viene preparata con ripieni fatti di altra carne, come avveniva nelle corti rinascimentali. La gallina farcita con riso, polpa di manzo e frattaglie ragusana ha questa origine.
Anche il dolce segue il criterio dell’abbondanza. Ne sono esempio, i pani dolci farciti di frutta secca, canditi, uvette, augurio di fertilità e di ricchezza, che nascono da un’idea semplice: si prende un alimento comune, lo si arricchisce di ingredienti speciali, se ne modifica il sapore e la magia è fatta. È il caso del pangiallo laziale, che deve il suo nome al generoso impiego di zafferano con cui un tempo se ne colorava la superficie e che oggi viene usato in quantità minori o persino evitato.