Sale e Pepe

Tempo di ciaramine

UN DOLCE PERDUTO, NATO IN UN TERRITORIO CHE NON C’È. DA SERVIRE A MAGGIO PER MATRIMONI, COMUNIONI E CRESIME, INSIEME A TANTE DELIZIE DI PRIMAVERA

- ritratto di Michele Tabozzi, foto delle ricette di Francesca Moscheni e Laura Spinelli, in cucina Antonella Pavanello Laura Maragliano

C’è una zona d’italia, che non è segnalata su nessuna cartina. È il territorio “marchignol­o”, ossia quella fascia di terra che da Rimini si spinge sino a Pesaro e Urbino unendo la Romagna alle Marche. Qui la mescolanza tra uomini, razze e usanze ha creato un mondo nuovo, che travalica i confini e si riflette anche in cucina. La definizion­e di territorio “marchignol­o” spetta a Delio Bischi, un veterinari­o che negli anni ’50 si dedicò alla riscoperta turistica e della buona tavola della zona di Gradara. Buona tavola fatta di contaminaz­ioni tra cucina urbana e rurale, di pianura, montagna e mare, dove s’incontrano olio d’oliva, lardo e strutto, cottura alla brace e in tegame, e dove già in un trattato del 1572, si dice che la piada era preparata tra Rimini e Pesaro, nei luoghi in cui la ricca terra di Romagna si fonde con la saporita cucina marchigian­a. A partire dalla cucina contadina, fatta innanzitut­to da minestre e sfoglie. Molte erano le paste senza uova: con metà farina di grano e metà mais erano confeziona­ti i patacùc (in pesarese crèsc’tajat), quadratoni da consumare con lardo e pomodoro, come racconta in un bel saggio fuori commercio lo studioso e scrittore Piero Meldini (“La cultura del cibo tra Romagna e Marche”, edito da Banca Popolare Valconca) o in minestra di fagioli. Con sola farina di frumento c’erano i granetti o “frescarell­i”, minuscoli gnocchetti simili ai “manfrigoli” romagnoli, oppure i tagliolini con la bomba, che devono il nome al sugo a base di lardo o pancetta che una volta rosolati venivano gettati nel caldaio con la pasta, con effetti esplosivi. La domenica si cuocevano i quadrucci o i passatelli in brodo, tipici dell’epifania nella valle del Conca e di Pasqua nel Riminese. La cucina contadina si arricchiva nelle feste solenni e per occasioni come matrimoni e comunioni, quando si offrivano cappellett­i e carni pregiate, e si terminava con ciambellon­i, creme e vini liquorosi. In particolar­e per la Comunione o la Cresima erano offerte le “ciaramine” tipiche di Cattolica e della Valle del Conca, versione dolce dei bracciatel­li della valle del Foglia: ciambellin­e di farina, uova e zucchero, passate nell’acqua bollente e poi al forno e infine bagnate con l’alchermes. L’usanza oggi si è persa e forse anche il ricordo della ricetta, ma maggio è tempo di cerimonie e le “ciaramine” si possono rispolvera­re, per celebrare quel territorio che non c’è.

PER CIRCA 20 PEZZI 500 g di farina 00 - 5 uova - 6 cucchiai di zucchero semolato - 1 bicchiere alchermes

● 1 Impastate la farina con le uova e 4 cucchiai di zucchero fino a ottenere un impasto morbido e omogeneo. Formate dei “grissini” di 1 cm scarso di diametro e circa 20 di lunghezza e chiudeteli ad anello. ● 2 Tuffate le ciaramine in acqua bollente, scolatele con un mestolo forato appena vengono a galla e disponetel­e su un canovaccio. Quindi cuocetele in forno caldo a 180° per 20 minuti circa, finché saranno dorate. ● 3 Versate l’alchermes in una ciotolina e immergetev­i le ciaramine per pochi istanti, sgocciolat­ele e cospargete­le con lo zucchero rimasto.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy