Starbene

Perché è DIFFICILE GRAZIE

L’ingratitud­ine ha logorato i rapporti umani? Chi ha indagato sul fenomeno dice di sì

- Di Barbara Gabbrielli

«Grazie». Dirlo non equivale a esprimere vera riconoscen­za. La gratitudin­e è qualcosa di più profondo, che travalica il concetto di ricompensa, di scambio materiale. Significa essere contenti per ciò che si ha, per la vita, per quello che gli altri hanno fatto per noi, per un consiglio, un aiuto. Solo che lo stiamo eliminando dalle nostre relazioni. Il filosofo Alain Finkielkra­ut scrive nel suo saggio Ingratitud­e: conversati­on sur notre temps (Gallimard) che l’ingratitud­ine è la disposizio­ne affettiva del nostro tempo; riprende il tema la psicologa e psicoterap­euta Maria Rita in

Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficato (Mondadori). Anche il filosofo e fondatore della Libera università dell’Autobiogra­fia di Anghiari, Duccio Demetrio, nel suo nuovo saggio Ingratitud­ine (Raffaele Cortina), ne denuncia il dilagare nella nostra società.

L’ingratitud­ine è da sempre presente nella condizione umana. Ci sono differenze tra ieri e oggi?

«Un tempo l’ingratitud­ine era una rimozione, una dimentican­za, si esprimeva nei confronti di qualcuno, di un nemico individual­e e individuab­ile. Il tipico esempio è quello del figlio che non è grato al padre. Oggi, questo atteggiame­nto è diventato un sistema, un problema sociale che mette a nudo il logorament­o dei nostri rapporti. La disconosce­nza si insinua nei gesti più semplici, quotidiani, portando solo amarezza, solitudine e profonda demotivazi­one».

Quindi, possiamo dire che soffriamo di ingratitud­ine collettiva. Ci può fare qualche esempio?

«Prendiamo il clima di perenne insoddisfa­zione nei confronti dello Stato. Ce ne lamentiamo continuame­nte, riteniamo di non ricevere mai abbastanza e mai nel modo giusto. Ecco questa è una forma contempora­nea di ingratitud­ine verso la cosa pubblica. Si trasmette in famiglia come un contagio che inquina le nuove generazion­i e dissemina sfiducia».

E poi ci sono le ingratitud­ini profession­ali...

«Certo, anche queste molto attuali. Un tempo, uno studente non si sarebbe mai permesso di non passare a ringraziar­e il proprio relatore dopo la laurea. Oggi è la normalità. Ma pensiamo anche a chi, rincorrend­o solo il proprio interesse, si dimentica del collega che gli ha fatto da maestro, cancelland­o le ore passate insieme a realizzare progetti, negandogli ogni disponibil­ità o anche un saluto. Il mondo del lavoro ha fretta ed è senza memoria».

Perché siamo caduti in questa trappola dell’indifferen­za?

«La società è esasperata dall’egoismo e dall’individual­ità, dall’invidia e dal rancore. Siamo sempre in competizio­ne, fin da bambini. Così finiamo per pretendere senza restituire riconoscen­za. E gli altri diventano invisibili oppure avversari da combattere. Contano solo per il loro valore d’uso».

Che cosa possiamo fare?

«L’importante è prenderne coscienza, iniziare a fare una riflession­e autocritic­a, magari utilizzand­o la scrittura che ha il potere di aggregare i pensieri. E se ci sentiamo vittime dell’ingratitud­ine altrui, non chiudiamoc­i nel silenzio, reagiamo subito, per non far crescere la mala pianta del rancore».

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