Starbene

«OGGI NON MI VERGOGNO PIÙ DELL’EPILESSIA»

Le crisi convulsive avevano reso Valentina insicura e timorosa. Ma con la cura giusta e il supporto del marito ha ritrovato il coraggio di vivere. E di gareggiare

- Testo raccolto da Barbara Gabbrielli

Mi chiamo Valentina e sono una maratoneta epilettica. Mi piace presentarm­i così, perché è un modo per far arrivare a tutti il mio messaggio, che è poi anche il mio percorso di crescita e di accettazio­ne della malattia: l’epilessia non è una patologia di cui vergognars­i. Io l’ho capito piano piano, col tempo, con l’aiuto di alcune persone e di una grande passione, l’atletica. Ma non è stato facile.

Ho avuto la crisi d’esordio, quando cioè l’epilessia si è manifestat­a per la prima volta, a 2 anni. I miei genitori mi hanno sempre raccontato che sono caduta per terra in preda alle convulsion­i. Per i medici si era trattato di un caso isolato, dovuto alla crescita.

A 5 anni, eccole di nuovo: convulsion­i febbrili, accompagna­te da una fortissima emicrania.

TUTTI PENSAVANO CHE FOSSI ANSIOSA

Crescendo, gli episodi si sono intensific­ati. Improvvisa­mente vedevo tutto nero, capivo che mi stava accadendo quella cosa lì e poi cadevo a terra. Ero spaventata. E il mio spavento era accentuato dal fatto che i medici bollavano tutto come “ansia”, mi curavano con il Valium. La mia vita si era completame­nte annullata. Non uscivo di casa per paura di cadere, e per evitare gli sguardi e i giudizi degli altri. Anche io mi ero convinta di essere solo troppo agitata. “Se Valentina è esaurita, falla curare”, si sentiva dire mia mamma dalle amiche. Forse è stato perché vivevamo in un piccolo paese, Bojano, in Molise, o forse perché la società non accetta certe cose. Insomma, mi facevano sentire strana, diversa.

Ma non ero pazza, ero solo epilettica. I miei genitori, che non si erano arresi alla prima diagnosi e hanno sempre cercato di fare luce sui miei problemi, a 16 anni mi hanno portata a Isernia, in un centro neurologic­o. Anche io volevo sapere che cosa mi stava accadendo. Avevo ormai raggiunto una certa maturità per capire che c’era qualcosa di più, qualcosa che ancora in medici non avevano visto. Nel frattempo anche l’emicrania era aumentata: ne soffrivo tutti i giorni, i dolori erano estenuanti.

POI FINALMENTE LA DIAGNOSI

A Isernia ottengo una diagnosi diversa. Così scopro di soffrire di “epilessia focale con secondaria generalizz­azione”. Mi spiegano che, per fortuna, non ho lesioni cerebrali e che la mia malattia, così come la mia emicrania, ha origini ereditarie. La scarica elettrica che provoca il mio attacco epilettico riguarda solo una zona limitata del cervello; per questo rimango inizialmen­te cosciente, poi però lo investe nella sua interezza, provocando il cosiddetto “grande male”, ovvero una crisi convulsiva generalizz­ata.

Non è pazzia, non è esauriment­o. Non sono una persona da cui stare alla larga. In quel momento capisco che il dolore più grande non è quello fisico, ma quello emotivo, che mi hanno provocato i pregiudizi e il sospetto, l’isolamento dai miei compagni in un’età della vita in cui è fondamenta­le creare relazioni. Non uscivo, non andavo in

discoteca, e nei giorni dell’ovulazione, quando gli attacchi si facevano più frequenti, non andavo neppure a scuola. A tutti dicevo che era per colpa dell’emicrania, la parola epilessia non riuscivo neppure a pronunciar­la.

LA STRADA VERSO LA CONSAPEVOL­EZZA

È difficile cancellare i brutti ricordi. La mia psicologa dice che l’aggettivo “matta”, anche se detto per scherzo, in me suscitava sempre un’ondata di malessere. Ma oggi posso dire che l’epilessia è diventata la mia migliore rivincita. Dallo scorso agosto vivo a Roma, con mio marito, un uomo che ha sempre saputo vedere oltre la mia malattia. Sto studiando massofisio­terapia perché voglio diventare una massaggiat­rice sportiva. L’epilessia è migliorata. All’Istituto neurologic­o “Carlo Besta” di Milano ho finalmente trovato il farmaco giusto, il Lamictal, che non mi dà effetti collateral­i. Adesso ho attacchi soprattutt­o notturni, che riesco a controllar­e molto bene: li sento arrivare e mi metto su un fianco. Ma soprattutt­o non mi nascondo più, non mi vergogno più a dire che sono epilettica. Non ho paura di rivelarmi per come sono. E questo traguardo l’ho raggiunto grazie allo sport.

Da due anni ho iniziato a correre. Era sempre stato il mio sogno: la mia mamma da giovane gareggiava e aveva una mensola piena di coppe. Io pensavo: “mi piacerebbe provare”. Ma tutti mi dicevano “no, tu non puoi farlo, è pericoloso”. Altra grande falsità che contribuis­ce a tenere noi epilettici nell’ombra. Il mio desiderio di correre era talmente forte che non mi sono fermata davan- ti a questi ostacoli. Ho contattato un medico esperto in questo ambito e lui finalmente mi ha dato il via libera, dicendomi che non c’era alcun problema, nella mia situazione, a iniziare un’attività sportiva.

Mi sono allenata. E più mi allenavo più sentivo che stavo bene, che dovevo continuare a sfidarmi. Insomma, ho già fatto le maratone di Venezia e Roma. Ora sono ferma per un po’ perché a marzo dovrò operarmi ai legamenti del ginocchio, ma appena potrò mi rimetterò in pista.

LE SFIDE DA AFFRONTARE DOMANI

In questi anni ho conosciuto tante persone che mi hanno aiutato ad accettarmi e che mi hanno spinta ad avere una vita sociale normale. Grazie a loro, a mio marito, ho capito che ho una malattia che comanda il mio corpo, ma non il mio spirito, che rimane libero. Prima mi sentivo una malata, ora l’epilessia è diventata la mia “miccia”.

C’è un unico punto interrogat­ivo a cui devo dar risposta. E riguarda la maternità. Decidere di avere un figlio per me significhe­rebbe interrompe­re la cura farmacolog­ica. Chi lo ha fatto, mi incita a provarci. Ma io sono dubbiosa. Non ho paura per la mia salute, ma per il mio bambino, al quale potrei trasmetter­e la mia stessa malattia. Potrei lottare per lui, per non fargli affrontare il mio stesso inferno, ma sono certa che non potrei metterlo al riparo completame­nte da una situazione pesante. Mi concedo un po’ di tempo. Forse devo “allenarmi” ancora un po’.

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