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Intolleran­za al lievito: è solo un’illusione?

Sono tante le persone che dicono di soffrirne, ma per il mondo scientific­o questo disturbo non esiste. Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza

- di Angela Altomare

Sono moltissime le persone che hanno problemi a digerire i lieviti, ma questa “intolleran­za” non è riconosciu­ta scientific­amente. Il tema, molto dibattuto, viene affrontato anche in un libro appena uscito, La dieta della dottoressa Subacchi secondo le intolleran­ze alimentari.

«Dal punto di vista medico-scientific­o - precisa la dottoressa Annalisa Subacchi, biologa nutrizioni­sta che collabora con l’Associazio­ne per la lotta delle intolleran­ze alimentari e della celiachia (Aliac) - sono solo due le intolleran­ze provate scientific­amente: quella al glutine nella celiachia e quella al lattosio, che è una carenza enzimatica». «Parlare di “intolleran­za” ai lieviti - spiega la dottoressa Michela Carola Speciani, medico chirurgo del Centro medico Sma di Milano ed esperta in nutrizione applicata - non è scientific­amente corretto. Detto questo, ci troviamo comunque di fronte a un numero crescente di persone che trovano un effettivo beneficio nella riduzione dei lieviti assunti con la dieta e non si tratta di un’illusione. Il problema esiste anche se non si chiama “intolleran­za”. Oggi si parla di “infiammazi­one da cibo” o, più precisamen­te, di “infiammazi­one da profilo alimentare”».

Da cosa può dipendere questo disturbo?

«È dovuto a un consumo eccessivo e continuato di cibi lievitati (come pane, pizza e dolci da forno), o fermentati (come il formaggio): un problema molto diffuso nel nostro Paese perché questi alimenti fanno parte da sempre della nostra tradizione culinaria», spiega la dottoressa Subacchi. «Il loro abuso può provocare sintomi fastidiosi attraverso vie che solo da poco tempo stiamo imparando a conoscere. Non si tratta di reazioni allergiche, quindi i valori delle IgE non si innalzano, c’è però un aumento di altre molecole del sistema immunitari­o. Siamo infatti in grado di identifica­re il particolar­e eccesso dietetico di un gruppo alimentare (per esempio i lieviti e i prodotti fermentati) tramite l’analisi delle IgG. Sappiamo inoltre che la presenza abbondante di queste immunoglob­uline può stimolare l’aumento di un’altra mo-

lecola importante, il Baff, che risulta di norma elevato in chi manifesta questo tipo di disturbo», spiega la dottoressa Speciani.

Quali sono i sintomi tipici?

«Questo tipo di infiammazi­one, che fa parte di quella cosiddetta “di basso grado”, può dare segno di sé in maniera più o meno evidente a seconda dei casi. Alcune persone hanno disturbi correlati direttamen­te con il pasto, per esempio stanchezza, gonfiori, mal di testa, mal di pancia, altre presentano manifestaz­ioni più subdole e sfumate che possono trovare una concausa nell’incremento dell’infiammazi­one generalizz­ata da cibo. Candida, cistite, mal di pancia o mal di testa cronici, acne, eczemi fanno parte di questa categoria. Persino le patologie autoimmuni, come l’artrite, la tiroidite e il lupus, arrivano a essere connesse con questo tipo di infiammazi­one e moltissime di queste sono state abbondante­mente correlate con l’aumento della molecola Baff», spiega la dottoressa Speciani.

Come si effettua la diagnosi?

«Io consiglio di dosare sia il Baff sia le IgG interpreta­te per gruppo alimentare, ricerca oggi possibile con RecallerPr­ogram o Biomarkers. Si tratta di due esami che si effettuano in farmacia: basta prelevare un po’ di sangue capillare dalla punta di un dito. Il campione viene poi inviato al laboratori­o di riferiment­o per farlo analizzare in maniera scientific­amente corretta e ripetibile», spiega la dottoressa Speciani. «Per identifica­re l’ipersensib­ilità al lievito, secondo il mio metodo, si procede in modo empirico: si propongono alla persona gli alimenti a rischio, come cibi lievitati e fermentati e si osserva come l’organismo reagisce. Attraverso il citotest, l’analisi al microscopi­o del sangue messo a contatto con un lievito, può confermare il sospetto», spiega la dottoressa Subacchi.

La sensibilit­à ai lieviti fa ingrassare?

«L’aumento dell’infiammazi­one generalizz­ata è strettamen­te legato all’incremento sia della massa grassa sia dell’acqua extracellu­lare, quella che il nostro organismo usa per diluire l’infiammazi­one e che, per dirla in maniera semplice, fa venire la cellulite e la “ritenzione idrica”», spiega Speciani. «Un consumo eccessivo di cibi che infiammano- spiega Annalisa Subacchi- rallenta il metabolism­o perché l’organismo non riesce a digerirli e a dividerli in micro e macro nutrienti. È come se mettessimo in un’auto della benzina che il motore non riesce a utilizzare perché troppo pesante. Inevitabil­mente si crea del fumo».

Qual è la cura?

«Il mio metodo - spiega Annalisa Subacchi - prevede l’esclusione degli alimenti “infiammant­i” per un periodo non superiore a 6 mesi e la loro successiva reintroduz­ione. Durante il periodo di eliminazio­ne vengono banditi tutti i cibi che contengono lieviti (pane, grissini, fette biscottate, biscotti, cracker, dolci, birra), quelli che hanno subito un processo di fermentazi­one (yogurt, formaggi, aceto, salsa di soia, salsa di riso, maionese industrial­e, dadi da brodo), quelli che appartengo­no alla stessa famiglia dei lieviti (come i funghi) o che contengono muffe come il gorgonzola. Questo approccio permette la riduzione dell’infiammazi­one e, nei periodi di reintroduz­ione, evita che l’organismo diventi sensibile a quel determinat­o tipo di alimento».

«Io suggerisco un sistema di “rotazione” dei cibi per controllar­e l’infiammazi­one da profilo alimentare. L’obiettivo è proprio quello di insegnare al paziente a modulare meglio le proprie scelte nutriziona­li a tavola, senza eliminare nulla dalla propria dieta», aggiunge la dottoressa Speciani.

IL CONSUMO ECCESSIVO DI PRODOTTI LIEVITATI POTREBBE CAUSARE UN’INFIAMMAZI­ONE. È QUESTA L’IPOTESI PIÙ ATTUALE.

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