Starbene

Sotto i 12 anni niente mischie

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Piace sempre di più, e proprio in questi giorni la palla ovale esce dai campi sportivi per approdare nei giardini di alcune città italiane con Rugby nei parchi 2017 (rugbyneipa­rchi.com), manifestaz­ione aperta sia agli under 13 che già praticano questo sport sia ai bambini che vogliono provarlo per la prima volta. Così come è accaduto a migliaia di studenti dal 2010 a oggi, cioè da quando il rugby viene proposto nelle scuole italiane per i motivi che trovi qui.

LA FORZA NON È TUTTO

Per giocare a rugby non sono richieste particolar­i doti fisiche: «Possono praticarlo sia i bambini sia le bambine, che diventano ogni anno più numerose. Non importa la loro struttura fisica», spiega Pablo Perata, responsabi­le un- der 16 del Cus Milano Rubgy e direttore tecnico dell’associazio­ne RunBabyRun. «Inoltre, fino a 12 anni non è prevista l’attività agonistica e questo permette ai piccoli giocatori di concentrar­si più sulla partecipaz­ione e l’apprendime­nto delle tecniche che su risultati e prestazion­i in campo».

PIÙ COORDINATI E ANCHE PIÙ SICURI DI SÉ

«Il rugby è fra gli sport più completi in assoluto. Impegna sia le braccia sia le gambe, in modo indipenden­te ma allo stesso tempo coordinato, migliorand­o le capacità di movimento», spiega Davide Susta, specialist­a in Medicina dello sport all’Università di Dublino (Irlanda). Ma i benefici sono anche mentali: «Sviluppa la capacità di lavorare insieme agli altri, perché definisce in modo sempre più preciso i ruoli in campo e insegna a mettere le tue qualità al servizio del team», continua Susta. Inoltre, è indicato per tutti i caratteri: «Ai più timidi e timorosi insegna ad avere più confidenza con sé e gli altri, mentre chi è più aggressivo impara a contenere la propria esuberanza», conclude Pablo Perata. «Il rugby è uno sport di contatto: si cade a terra, si placca, si spinge, ma in realtà fino a 12 anni non esistono mischie e gli educatori insegnano i movimenti per eseguire questi gesti senza farli davvero», rassicura l’allenatore Pablo Perata. «Piuttosto, prepariamo i bambini a essere predispost­i al contatto, in modo che negli anni il loro corpo si “abitui” agli impatti, riducendo il rischio di farsi male».

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