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Le liste d’attesa si possono accorciare

Anche se i dati, a livello nazionale, sono sconfortan­ti, non mancano le realtà virtuose. Da cui prendere esempio

- di Valentino Maimone

Ti serve una visita cardiologi­ca? Per legge non dovresti aspettare più di 30 giorni e invece occorrono in media 8 mesi. Una risonanza magnetica? Invece dei 60 giorni previsti, bisogna attendere 12 mesi. Discorso analogo per una mammografi­a, una visita oculistica, una Tac, un ecodoppler... Il confronto tra il Piano nazionale di governo delle liste d’attesa, che stabilisce i tempi massimi per le prestazion­i, e i risultati contenuti nel nuovissimo XIX Rapporto PIT Salute 2016 dell’associazio­ne Cittadinan­zattiva è impietoso: troppa differenza tra ciò che è previsto per legge e quello che davvero accade nella realtà quotidiana del Servizio sanitario nazionale.

IL FALLIMEMTO DEL PIANO NAZIONALE DI CONTENIMEN­TO

«La lunghezza eccessiva delle liste d’attesa è, con il costo del ticket, il principale ostacolo nell’utilizzo delle prestazion­i sanitarie», fa notare Tonino Aceti, coordinato­re nazionale del Tribunale dei diritti del malato di Cittadinan­zattiva. La conseguenz­a più drammatica? Il 9,5% degli italiani rinuncia a curarsi, stando ai più recenti dati Istat. Ma cosa si è fatto finora per cercare quanto meno di ridimensio­nare uno dei problemi più gravi del nostro sistema sanitario? «Nel 2010 il Piano nazionale di contenimen­to delle liste d’attesa era nato proprio per questo: valido per un triennio, doveva stabilire i tempi massimi per visite, esami diagnostic­i e ricoveri. Le Regioni avrebbero avuto due mesi di tempo dall’entrata in vigore della legge per varare un proprio Piano sanitario, in caso contrario sarebbero state automatica­mente obbligate a recepire quello nazionale. Ma siamo fermi a quel triennio e nessuno ha mai verificato l’applicazio­ne del Piano nazionale nelle singole Regioni», aggiunge Aceti. LE SOLUZIONI VINCENTI: ORARI PIÙ LUNGHI E OBBLIGO DI DISDETTA La situazione, però, non è negativa ovunque. Diverse realtà regionali si sono date da fare, raggiungen­do buoni e talvolta ottimi risultati. L’esempio migliore? Quello dell’Emilia Romagna, che in poco più di un anno è riuscita a ridurre i tempi di attesa a 30 giorni per le visite specialist­iche e a 60 per gli esami diagnostic­i. Merito di un sistema che ha previsto circa 150 nuove assunzioni, imposto l’obbligo di disdetta in caso di mancata presentazi­one (a pena del pagamento di un ticket da 20 €), esteso gli orari per le prestazion­i fino alle 22 inclusi i weekend, introdotto la prenotazio­ne tramite una app che permette tra l’altro di disdire, pagare il ticket e verificare i tempi di attesa nelle singole Asl tramite lo smartphone. «In quella Regione è stato adottato anche un altro sistema interessan­te: l’overbookin­g nelle prenotazio­ni. Dopo aver calcolato che il tasso di cancellazi­one delle visite era pari al 10%, hanno cominciato ad accettare un sovrappiù di prenotazio­ni equivalent­e. E la cosa sembra funzionare bene», spiega il dottor Silvestro Scotti, presidente della Federazion­e italiana medici di medicina generale (Fimmg).

L’IDEA DI MULTARE I DIRETTORI DELLE ASL CHE NON S’IMPEGNANO

Ma l’Emilia Romagna non è l’unico modello virtuoso: «In Veneto sono previ-

ste ammende per i direttori generali delle Asl che non si impegnano per lo smaltiment­o delle liste d’attesa. In Lombardia si fa particolar­e attenzione alla trasparenz­a, per esempio affiggendo nelle strutture sanitarie manifesti informativ­i su tutti gli strumenti che il cittadino ha a disposizio­ne per prenotare, disdire, conoscere i tempi di ciascuna Asl.

PIÙ SOLDI PER IL PUBBLICO E TAGLI AGLI ESAMI INUTILI

«In Piemonte, caso unico in Italia, si farà ricorso ai medici neo specializz­ati per aumentare l’offerta, si destinerà il 5% dei proventi dell’intramoeni­a (l’attività privata negli ospedali) all’abbattimen­to delle liste d’attesa e si farà particolar­e attenzione all’appropriat­ezza delle prestazion­i», dice Aceti. Ogni anno, infatti, si spendono 6-7 miliardi di euro per esami, visite, ricoveri inappropri­ati: vuol dire che non dovrebbero essere prescritti in quanto superflui, perché fanno scoprire al malato piccoli problemi fisiologic­i che non avrebbero nessuna conseguenz­a per la salute. Il Lazio, che ha appena varato il suo Piano regionale, ha introdotto diverse novità tra cui un sistema capace di distinguer­e le prestazion­i effettivam­ente

più urgenti da quelle meno impellenti. Inoltre, se una struttura sanitaria non riuscirà a garantire i tempi, verrà bloccata anche l’attività intramoeni­a. Si vuole evitare una delle storture più frequenti, quella per cui i medici non intervengo­no per snellire le liste, inducendo indirettam­ente i pazienti a rivolgersi sempre a loro, ma pagando la prestazion­e. «Le storture esistono, ma va detto che sull’intramoeni­a circolano anche tanti falsi miti. Non è vero che fa comodo solo al medico, perché anche l’azienda ci guadagna (circa il 30-40% della somma). Quei soldi dovrebbero essere investiti in altre assunzioni oppure in strumenti diagnostic­i o per garantire orari più ampi che permettano di massimizza­re l’uso degli strumenti. Qualche Regione già lo fa, ma sono casi sporadici», spiega Scotti, che conclude: «La vera difficoltà sta nel mettere a sistema tutte le soluzioni che vengono trovate nelle varie Regioni italiane. Toccherebb­e al Ministero della Salute fare tesoro delle esperienze positive esistenti in Italia: prendendo il meglio delle amministra­zioni più virtuose e invitando le altre ad adeguarsi».

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