Editoriale
Con la nascita della mia prima figlia, ho scoperto che, senza accorgermene, in un momento imprecisato del mio passato, avevo perso la capacità di giocare. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo. La mia spensieratezza e voglia di divertirmi lasciava supporre il contrario. Ma il confronto diretto e quotidiano con una piccola “professionista” del gioco è stato impietoso.
Alla prova del “facciamo finta che eravamo…” non riuscivo a reggere la messinscena per più di 5 minuti. E non per noia, ma per reale inettitudine. Incapacità di uscire da me stessa, attribuirmi un’altra identità e costruire mondi privi di logica in cui muovermi con assoluta sincerità.
Da quando è arrivata la seconda figlia, vengo meno coinvolta nei momenti ludici. In compenso, mi soffermo spesso a guardare le due sorelline giocare. Rimango rapita dalla serietà e concentrazione che mettono nel costruire la finzione. Dalla complessità che raggiunge il mondo da loro elaborato fin quando, malauguratamente, una qualsiasi interferenza esterna (per esempio il mio sguardo) le distoglie. “Se fossi capace di giocare come fanno loro, chi mi fermerebbe più?”, ho pensato di frequente. E oggi ne ho la conferma. Leggendo l’articolo a pag. 92, ho scoperto che saper giocare ci rende più audaci nell’inseguire ciò che ci fa star bene e nel tenerci a distanza da ciò che non ci piace. Non solo. Giocare ci permette di trovare soluzioni insolite. Così come i bambini usano il gioco per elaborare strategie di sopravvivenza, mettersi alla prova, capire come funziona il mondo e come gli altri reagiscono, allo stesso modo noi potremmo usare il gioco per uscire dagli schemi e sperimentare comportamenti inediti. E poi, giocare è un bisogno. Biologico. Lo fanno anche gli animali. E non solo quelli sollevati dall’ansia quotidiana di procacciarsi il cibo, tipo cani e gatti domestici. Ma persino i ragni! Parola di Starbene.