Editoriale
Un articolo di giornale può essere ben scritto, chiaro, corretto, eppure, se alla fine della lettura ti strappa un “sempre le solite cose” è un articolo mal riuscito. Soprattutto oggi, epoca in cui trovare informazioni su qualsiasi argomento è semplicissimo. Un giornalista può dirsi soddisfatto del proprio lavoro se scova qualche novità, propone nuovi punti di vista, fornisce insolite chiavi di lettura. Insomma, sorprende. Prendete il dossier di pagina 22. È dedicato a un tema su cui tutti quanti sappiamo (o pensiamo di sapere) molto, eppure la nostra Laura D’Orsi è riuscita nell’impresa di farci dire “ah, questa mi mancava”. Io, per esempio, ignoravo che i semi dell’anguria, se mandati giù interi, non fanno male, anzi, fanno benissimo; che l’uva non trattata contiene più resveratrolo di quella trattata e che, dopo aver mangiato agrumi, è meglio lavarsi subito i denti per non indebolire lo smalto. Leggendo le tabelle nutrizionali dei vari tipi di frutta non avevo neppure mai notato che i fichi contengono meno zuccheri dei mandarini e solo pochissimi in più rispetto alle prugne. Il segreto di chi fa bene il nostro lavoro di giornalista? Non dare mai nulla per scontato, farsi e fare (agli intervistati) le domande giuste per capire meglio. Che poi a ben guardare è una regola che dovremmo adottare tutti nella vita quotidiana. Invece, capita spesso che di fronte a un problema, un dubbio, un’incomprensione, una cosa che non si conosce o non si capisce, invece di “alzare la mano” per chiedere spiegazioni, ce ne stiamo zitti. Per timidezza, timore di fare brutta figura, di essere inopportuni. Ma quante occasioni perdiamo così? Nelle relazioni, al lavoro, a scuola. Ne parliamo a pagina 74, dove il mental coach ci invita a recuperare la spontaneità dei bambini, per i quali chiedere è un’urgenza vitale: è attraverso la curiosità che esplorano il mondo. A proposito, lo sapeva teche fra i2 e i 4 anni arrivano a fare anche 300 domande al giorno?