ESSERE DISLESSICI È COME ESSERE MANCINI
È la tesi (supportata dalla scienza) di un libro appena uscito, scritto da una madre che sogna una scuola in cui ognuno possa imparare a modo suo, senza etichette
Le esplosioni di rabbia, la lentezza esasperante quando c’è da prepararsi per andare scuola, i quaderni stropicciati, le matite spezzate. Teo, 12 anni, impensierisce i genitori: i voti stanno calando, è irrequieto, per un nonnulla sbotta, piange senza un perché. Cosa sta succedendo? Alla fine, un sospetto, un’indagine e una diagnosi: dislessia. Per la famiglia è il momento dello stupore, della preoccupazione, ma anche di un nuovo inizio. «È come aver creduto di essere uomo e scoprire di essere donna», dirà a un certo punto Teo, sintetizzando il suo stato d’animo. E anche, con sollievo: «Pensavo di essere scemo».
UN PERCORSO FATICOSO
A raccontare la storia di Teo, protagonista del romanzo Il bambino che disegnava le parole (Giunti) è la giornalista Francesca Magni. Una storia, commovente e illuminante, che prende spunto dall’esperienza di Francesca, mamma di due figli, uno dei quali dislessico. E dal faticoso percorso per il riconoscimento, la diagnosi (purtroppo tardiva) e la certificazione di qualcosa che, oggi, lei non riesce più a chiamare disturbo. «La dislessia è una neurovarietà, una delle tante possibili caratteristiche del cervello», spiega. «Dipende dal fatto che, durante lo sviluppo fetale, i neuroni si dispongono in modo differente rispetto alla “consuetudine”. Questa varietà produce effetti di cui, nella prima infanzia non ti accorgi, anche se ora so che alcuni segnali, come il ritardo nel linguaggio, possono insospettire. Ma la vera scoperta avviene a scuola, verso la terza elementare, perché lo scoglio del dislessico è la lettura. Tutti, prima o poi, riescono a leggere alla giusta velocità. Il dislessico no. A questo punto, prima un bambino viene certificato, meglio è. Perché la certificazione, per quanto odiosa, è la sola possibilità che hai di chiedere attenzione per un modo di apprendere particolare. E consentire a tuo figlio, che è intelligente, curioso e capace, di convivere con questa sua caratteristica e continuare a studiare». Ma il problema non è solo la lettura. «La mente di un dislessico è come una stanza in cui le cose che man mano apprende vengono scritte su dei foglietti: ogni tanto un colpo di vento ne fa volare via un po’, le informazioni si perdono, e si deve ricominciare daccapo. Ecco perché impiega più tempo per studiare e ha bisogno di strumenti alternativi, dalle mappe concettuali alla calcolatrice, oltre che di impegnarsi il triplo dei suoi compagni. La certificazione, dunque è importante anche se, in una scuola ideale, in un mondo ideale, nessuno dovrebbe essere certificato e dovrebbe essere prevista ogni varietà di apprendimento».
IL PARERE DELL’ESPERTO
Perché il campanello d’allarme riguarda la lettura? «Questo disturbo neurologico causa un’organiz-
zazione non ottimale proprio per svolgere questo compito», spiega Cristiano Termine, professore associato di neuropsichiatria infantile all’Università dell’Insubria di Varese. «Vuol dire che nella mente di un dislessico le reti neuronali che servono alla visione non dialogano bene con quelle del linguaggio. Quindi il bambino fa fatica a convertire un segno grafico in un suono. Non perché ci veda male, ma perché il dialogo tra queste reti neuronali avviene in modo lentissimo. Una lentezza che si manifesta subito nella lettura (quindi studiare diventa un’impresa titanica) ma anche nella scrittura e, con l’aumentare dell’impegno richiesto a scuola, per lui crescono frustrazione e sofferenza». Con conseguenze anche sul linguaggio: in certi casi il bambino non trova le parole, ha un lessico fragile, fatica a ricordare nomi e numeri.
LA VIA D’USCITA
La tempestività di intervento è importante non tanto perché di dislessia si possa “guarire”, ma perché i bambini imparano a gestire questa loro caratteristica. E cominciano a vivere meglio. «La scoperta della dislessia è il momento più delicato che, sempre, comporta una crisi. Ci sono i genitori che rifiutano la diagnosi (più spesso i padri) e quelli che sprofondano nel senso di colpa per non averlo sospettato prima e aver rimproverato o punito il figlio perché non studiava, era aggressivo e prendeva brutti voti», spiega Rosanna Blonda, psicologa dello sviluppo presso la Fondazione Don Gnocchi Santa Maria Nascente di Milano. «Ma ci sono anche le crisi dei figli: si vergognano, hanno paura di essere giudicati “matti” o “stupidi”, comunque diversi, si sentono falliti. Con una differenza: una diagnosi fatta in seconda o terza elementare, superato il primo momento di disorientamento, porta il bambino a considerarla una parte di sé, come la miopia o l’essere mancini. Nella preadolescenza, invece, i ragazzini arrivano in ambulatorio con un cumulo di rabbia e di frustrazioni tale che il lavoro può diventare impegnativo: si rifiutano di sottoporsi alle valutazioni, non vogliono usare il computer in classe. Prima di tutto, quindi, con loro diventa importante lavorare sull’autostima e sul clima in famiglia». Poi, piano piano, anche loro cominciano a stare meglio e a usare tutti gli aiuti messi a disposizione: la smart pen (una penna che registra le lezioni in classe e che, a casa, permette di prendere appunti trascrivendo la sintesi dei concetti su uno speciale quaderno), il computer o la scrittura in stampatello (molti la preferiscono), la calcolatrice. Strumenti semplici che permettono a ragazzi (in genere sveglissimi, dotati e molto capaci), di poter finalmente accostarsi a un’esperienza per i più banale: essere autonomi nello studio.