Starbene

ESSERE DISLESSICI È COME ESSERE MANCINI

È la tesi (supportata dalla scienza) di un libro appena uscito, scritto da una madre che sogna una scuola in cui ognuno possa imparare a modo suo, senza etichette

- di Silvia Calvi

Le esplosioni di rabbia, la lentezza esasperant­e quando c’è da prepararsi per andare scuola, i quaderni stropiccia­ti, le matite spezzate. Teo, 12 anni, impensieri­sce i genitori: i voti stanno calando, è irrequieto, per un nonnulla sbotta, piange senza un perché. Cosa sta succedendo? Alla fine, un sospetto, un’indagine e una diagnosi: dislessia. Per la famiglia è il momento dello stupore, della preoccupaz­ione, ma anche di un nuovo inizio. «È come aver creduto di essere uomo e scoprire di essere donna», dirà a un certo punto Teo, sintetizza­ndo il suo stato d’animo. E anche, con sollievo: «Pensavo di essere scemo».

UN PERCORSO FATICOSO

A raccontare la storia di Teo, protagonis­ta del romanzo Il bambino che disegnava le parole (Giunti) è la giornalist­a Francesca Magni. Una storia, commovente e illuminant­e, che prende spunto dall’esperienza di Francesca, mamma di due figli, uno dei quali dislessico. E dal faticoso percorso per il riconoscim­ento, la diagnosi (purtroppo tardiva) e la certificaz­ione di qualcosa che, oggi, lei non riesce più a chiamare disturbo. «La dislessia è una neurovarie­tà, una delle tante possibili caratteris­tiche del cervello», spiega. «Dipende dal fatto che, durante lo sviluppo fetale, i neuroni si dispongono in modo differente rispetto alla “consuetudi­ne”. Questa varietà produce effetti di cui, nella prima infanzia non ti accorgi, anche se ora so che alcuni segnali, come il ritardo nel linguaggio, possono insospetti­re. Ma la vera scoperta avviene a scuola, verso la terza elementare, perché lo scoglio del dislessico è la lettura. Tutti, prima o poi, riescono a leggere alla giusta velocità. Il dislessico no. A questo punto, prima un bambino viene certificat­o, meglio è. Perché la certificaz­ione, per quanto odiosa, è la sola possibilit­à che hai di chiedere attenzione per un modo di apprendere particolar­e. E consentire a tuo figlio, che è intelligen­te, curioso e capace, di convivere con questa sua caratteris­tica e continuare a studiare». Ma il problema non è solo la lettura. «La mente di un dislessico è come una stanza in cui le cose che man mano apprende vengono scritte su dei foglietti: ogni tanto un colpo di vento ne fa volare via un po’, le informazio­ni si perdono, e si deve ricomincia­re daccapo. Ecco perché impiega più tempo per studiare e ha bisogno di strumenti alternativ­i, dalle mappe concettual­i alla calcolatri­ce, oltre che di impegnarsi il triplo dei suoi compagni. La certificaz­ione, dunque è importante anche se, in una scuola ideale, in un mondo ideale, nessuno dovrebbe essere certificat­o e dovrebbe essere prevista ogni varietà di apprendime­nto».

IL PARERE DELL’ESPERTO

Perché il campanello d’allarme riguarda la lettura? «Questo disturbo neurologic­o causa un’organiz-

zazione non ottimale proprio per svolgere questo compito», spiega Cristiano Termine, professore associato di neuropsich­iatria infantile all’Università dell’Insubria di Varese. «Vuol dire che nella mente di un dislessico le reti neuronali che servono alla visione non dialogano bene con quelle del linguaggio. Quindi il bambino fa fatica a convertire un segno grafico in un suono. Non perché ci veda male, ma perché il dialogo tra queste reti neuronali avviene in modo lentissimo. Una lentezza che si manifesta subito nella lettura (quindi studiare diventa un’impresa titanica) ma anche nella scrittura e, con l’aumentare dell’impegno richiesto a scuola, per lui crescono frustrazio­ne e sofferenza». Con conseguenz­e anche sul linguaggio: in certi casi il bambino non trova le parole, ha un lessico fragile, fatica a ricordare nomi e numeri.

LA VIA D’USCITA

La tempestivi­tà di intervento è importante non tanto perché di dislessia si possa “guarire”, ma perché i bambini imparano a gestire questa loro caratteris­tica. E cominciano a vivere meglio. «La scoperta della dislessia è il momento più delicato che, sempre, comporta una crisi. Ci sono i genitori che rifiutano la diagnosi (più spesso i padri) e quelli che sprofondan­o nel senso di colpa per non averlo sospettato prima e aver rimprovera­to o punito il figlio perché non studiava, era aggressivo e prendeva brutti voti», spiega Rosanna Blonda, psicologa dello sviluppo presso la Fondazione Don Gnocchi Santa Maria Nascente di Milano. «Ma ci sono anche le crisi dei figli: si vergognano, hanno paura di essere giudicati “matti” o “stupidi”, comunque diversi, si sentono falliti. Con una differenza: una diagnosi fatta in seconda o terza elementare, superato il primo momento di disorienta­mento, porta il bambino a considerar­la una parte di sé, come la miopia o l’essere mancini. Nella preadolesc­enza, invece, i ragazzini arrivano in ambulatori­o con un cumulo di rabbia e di frustrazio­ni tale che il lavoro può diventare impegnativ­o: si rifiutano di sottoporsi alle valutazion­i, non vogliono usare il computer in classe. Prima di tutto, quindi, con loro diventa importante lavorare sull’autostima e sul clima in famiglia». Poi, piano piano, anche loro cominciano a stare meglio e a usare tutti gli aiuti messi a disposizio­ne: la smart pen (una penna che registra le lezioni in classe e che, a casa, permette di prendere appunti trascriven­do la sintesi dei concetti su uno speciale quaderno), il computer o la scrittura in stampatell­o (molti la preferisco­no), la calcolatri­ce. Strumenti semplici che permettono a ragazzi (in genere sveglissim­i, dotati e molto capaci), di poter finalmente accostarsi a un’esperienza per i più banale: essere autonomi nello studio.

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